giovedì 31 dicembre 2009

Senza fissa dimora, senza diritti

Nell’edizione del 1993 del Rapporto Feantsa (Federation Européenne d’Associations Nationales Travaillant avec les Sans-Abri) sulla situazione italiana, a cura di Antonio Tosi e Costanzo Ricci, viene proposta una definizione di persona senza fissa dimora suddivisa in tre categorie: persone prive di qualsiasi sistemazione, persone in sistemazioni provvisorie del settore pubblico o volontario e persone che si trovano in situazioni abitative marginali fortemente sotto-standard. Secondo le stime dell’OMS sono circa 3 milioni le persone senza fissa dimora nei paesi dell’Unione Europea. Un dramma che si consuma sullo sfondo di un mondo industrializzato economicamente sempre più prospero (un PIL pro-capite che è raddoppiato tra il 1980 ed il 1995 in 12 paesi dell’Unione Europea). In Italia si calcola che le persone senza fissa dimora siano tra le 170.000 e 280.000, di cui 100-120.000 vivono in alloggi impropri, 60.000 vivono in forme di coabitazione forzata, 100.000 vivono in dormitori e 20.000 sono prive di qualsiasi riparo. Questi ultimi sono presenti soprattutto nelle grandi aree metropolitane (6.000 in una città come Roma e poco meno di 2.000 a Firenze).

I senza fissa dimora hanno sconvolto la gerarchia dei bisogni, che secondo la vecchia teoria di Maslow si distinguono in: primari, che riguardano la povertà materiale; secondari, che riguardano la povertà istituzionale e terziari, anche definiti bisogni di relazione, che dipendono dalla qualità del rapporto umano. I senza fissa dimora scelgono infatti di rimanere persone dipendenti soprattutto dalla comunità, più che dai bisogni materiali (primari) ed istituzionali (secondari). I senza fissa dimora sono essenzialmente delle persone che scelgono liberamente di non dipendere dai bisogni materiali, accettando di vivere una vita di povertà assoluta, non dipendendo dalle istituzioni ed avendo percepito la distanza tra quello che poteva offrire un’istituzione e quello di cui avevano realmente bisogno. Nella loro vita c’è quasi sistematicamente un episodio di trauma relazionale di diverso tipo che ha generato una serie di bisogni ai quali le risorse della comunità non hanno saputo rispondere. Ma guardando al di là dell'idea romantica del barbone che vive la strada per scelta, con l'idea consapevole di godere di una propria libertà, si evidenzia anche la fragilità di persone che hanno conosciuto il carcere, l'alcolismo, la disgregazione del nucleo familiare, la disoccupazione, il fallimento economico, la prostituzione e la difficoltà di vivere in una società dalla quale ci si sente esclusi. Solo una risposta valida e credibile al trauma relazionale iniziale può permettere dunque la riapertura di quelle porte che possono far entrare risorse sul piano materiale ed istituzionale e ristabilire un dialogo attivo e costruttivo con il tessuto sociale circostante. Sempre più spesso si tratta di donne e di una popolazione giovane, a volte con problemi di dipendenza da alcol o sostanze stupefacenti o con problemi psichici.

L’espandersi del fenomeno del “barbonismo” e la nascita del concetto di “esclusione sociale”, che ne deriva, sembra dunque essere proporzionale alla spinta verso l’emarginazione esercitata dalla nostra società nei confronti di persone che vivono momenti di fragilità. Ancora una volta, ci troviamo di fronte ad una società escludente, una società priva di una volontà sufficiente per porre rimedio a ferite che potenzialmente potrebbe curare, una società lontana dalla cultura della convivenza. Le politiche sociali e le istituzioni dovrebbero dunque occuparsi più del centro della società che dei margini, perché dovrebbero essere in grado di bloccare i processi di esclusione sociale e nello stesso tempo di attivare dei processi di recupero e di reinclusione sociale. La comunità dovrebbe pertanto diventare l’obiettivo principale dell’intervento, che in varie forme si mobilita, realizzando qualcosa di diverso dai processi di esclusione che gran pare della società civile invece mette in atto sistematicamente in maniera più o meno cosciente. In questo lungo e difficile percorso le istituzioni dovrebbero aiutare la comunità a crescere a prendere coscienza di quante situazioni di disagio dipendono dalla scarsa qualità di vita che la comunità riesce a mettere in atto, quante situazioni di disagio, quante marginalità sono fortemente dipendenti da una comunità che non ha più certi valori di riferimento, una cultura dell’accoglienza, un’attenzione alle generazioni. Fino ad ora poche amministrazioni comunali hanno preso seriamente in carico il problema, usufruendo del Fondo nazionale per le politiche sociali. Tali Comuni si sono attivati per la realizzazione di centri e servizi di prima accoglienza, interventi socio-sanitari e servizi per l'accompagnamento e il reinserimento sociale, i quali vengono affidati nella maggioranza dei casi alle organizzazioni di volontariato, alle istituzioni ecclesiastiche e al privato sociale (cooperative, fondazioni, ecc...), espressione dell’attuale dinamismo della società civile. Preoccupante è anche il fenomeno del cosiddetto " blocco anagrafico", cioè la perdita della residenza e dei documenti di riconoscimento da parte dei senza fissa dimora, la conseguente dichiarazione di scomparsa e l'impossibilità di usufruire dei servizi socio-sanitari, di votare, di beneficiare di pensioni di invalidità. La legge e il regolamento anagrafico di riferimento a livello nazionale concederebbero la possibilità di iscrizione all'anagrafe del Comune in cui la persona ha un domicilio, il luogo quindi sede dei principali affari e interessi, ma spesso gli stessi Comuni hanno interpretato in senso restrittivo tale norma, con conseguenze molto gravi. La situazione di disagio dei senza fissa dimora aumenta comprensibilmente nei mesi invernali. In una grande città come Roma, ad esempio, durante l’inverno appena trascorso, cinque persone sono morte a causa del freddo. Tra di essi anche un giovane di vent’anni.

In questo contesto MdM agisce con la finalità di portare aiuto e solidarietà non solo alle popolazioni vulnerabili di paesi lontani ma anche nelle nostre città. Dal 2003 è attiva a Roma un'unità mobile di MdM che opera nella zona del centro con volontari medici, psicologi ed infermieri . L’Unità mobile è concepita come un servizio di prossimità che ha l’intento di fungere da “ponte” tra le persone, che per varie ragioni sono private del diritto dell’accesso alle cure, e quei servizi sanitari pubblici che tale diritto devono garantire. Gli operatori di Roma limitano l'intervento ai casi di pronta risoluzione o di urgenza, offrendo un'informazione sui rischi per la salute, un orientamento alle strutture pubbliche specializzate per la cura delle varie patologie ed un eventuale accompagnamento, se necessario. MdM sta studiando la possibilità di iniziare anche a Firenze un programma sanitario rivolto alla popolazione senza fissa dimora; un equipe di volontari ha già avviato i primi contatti ed un primo affiancamento con i soggetti che operano nel settore. Nella progettazione della nostra azione possiamo usufruire della lunga esperienza delle altre delegazioni nazionali di MdM, che seguendo la stessa metodologia hanno attivato iniziative di vario tipo rivolte alle persone che si trovano sulla strada. Il 21 dicembre dello scorso anno la delegazione francese, in particolare, si è fortemente mobilitata per avanzare alle istituzioni pubbliche precise richieste, misure semplici e concrete quali il diritto ad un alloggio senza limite di durata per le persone che ne siano prive, abbandonando provvedimenti di emergenza per trovare soluzioni durature in tal senso. I volontari di MdM hanno percorso i quartieri della capitale francese alla ricerca di persone che vivessero e dormissero per la strada, donando loro in totale duecento tende tipo “canadese”. L’iniziativa ha sorpreso una parte dell’opinione pubblica parigina che è sembrata accorgersi della realtà dei “senza tetto” solo a causa della presenza delle tende blu che “disturbavano” il paesaggio urbano del centro della città. Le tende vogliono essere un simbolo, la denuncia dell’assenza di soluzioni concrete e non congiunturali. Abbiamo infatti riconosciuto che il contributo nel settore sanitario, come in altri settori, per essere incisivo a livello di popolazione, richiede il sostegno di politiche pubbliche intelligenti e mirate all’inserimento nella società dei cittadini che vivono in condizioni di emarginazione, passando da interventi di emergenza puramente assistenziali ad interventi duraturi e rispettosi della dignità delle persone.


http://www.mdmcentrosud.org/solidali/MdM_NS_05.htm

1 commento:

Anonimo ha detto...

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