Nell’edizione del 1993 del    Rapporto Feantsa (Federation Européenne d’Associations Nationales Travaillant    avec les Sans-Abri) sulla situazione italiana, a cura di Antonio Tosi e    Costanzo Ricci, viene proposta una definizione di persona senza fissa dimora    suddivisa in tre categorie: persone prive di qualsiasi sistemazione, persone    in sistemazioni provvisorie del settore pubblico o volontario e persone che si    trovano in situazioni abitative marginali fortemente sotto-standard. Secondo    le stime dell’OMS sono circa 3 milioni le persone senza fissa dimora nei paesi    dell’Unione Europea. Un dramma che si consuma sullo sfondo di un mondo    industrializzato economicamente sempre più prospero (un PIL pro-capite che è    raddoppiato tra il 1980 ed il 1995 in 12 paesi dell’Unione Europea). In Italia    si calcola che le persone senza fissa dimora siano tra le 170.000 e 280.000,    di cui 100-120.000 vivono in alloggi impropri, 60.000 vivono in forme di    coabitazione forzata, 100.000 vivono in dormitori e 20.000 sono prive di    qualsiasi riparo. Questi ultimi sono  presenti soprattutto nelle grandi aree    metropolitane (6.000 in una città come Roma e poco meno di 2.000 a Firenze).    
I senza fissa dimora hanno    sconvolto la gerarchia dei bisogni, che secondo la vecchia teoria di Maslow si    distinguono in: primari, che riguardano la povertà materiale; secondari, che    riguardano la povertà istituzionale e terziari, anche definiti bisogni di    relazione, che dipendono dalla qualità del rapporto umano. I senza fissa    dimora scelgono infatti di rimanere persone dipendenti soprattutto dalla    comunità, più che dai bisogni materiali (primari) ed istituzionali    (secondari). I senza fissa dimora sono essenzialmente delle persone che    scelgono liberamente di non dipendere dai bisogni materiali, accettando di    vivere una vita di povertà assoluta, non dipendendo dalle istituzioni ed    avendo percepito la distanza tra quello che poteva offrire un’istituzione e    quello di cui avevano realmente bisogno. Nella loro vita c’è quasi    sistematicamente un episodio di trauma relazionale di diverso tipo che ha    generato una serie di bisogni ai quali le risorse della comunità non hanno    saputo rispondere. Ma guardando al di là dell'idea romantica del barbone che    vive la strada per scelta, con l'idea consapevole di godere di una propria    libertà, si evidenzia anche la fragilità di persone che hanno conosciuto il    carcere, l'alcolismo, la disgregazione del nucleo familiare, la    disoccupazione, il fallimento economico, la prostituzione e la difficoltà di    vivere in una società dalla quale ci si sente esclusi. Solo una risposta    valida e credibile al trauma relazionale iniziale può permettere dunque la    riapertura di quelle porte che possono far entrare risorse sul piano materiale    ed istituzionale e ristabilire un dialogo attivo e costruttivo con il tessuto    sociale circostante. Sempre più spesso si tratta di donne e di una popolazione    giovane, a volte con problemi di dipendenza da alcol o sostanze stupefacenti o    con problemi psichici. 
L’espandersi del fenomeno del    “barbonismo” e la nascita del concetto di “esclusione sociale”, che ne deriva,    sembra dunque essere proporzionale alla spinta verso l’emarginazione    esercitata dalla nostra società nei confronti di persone che vivono momenti di    fragilità. Ancora una volta, ci troviamo di fronte ad una società escludente,    una società priva di una volontà sufficiente per porre rimedio a ferite che    potenzialmente potrebbe curare, una società lontana dalla cultura della    convivenza. Le politiche sociali e le istituzioni dovrebbero dunque occuparsi    più del centro della società che dei margini, perché dovrebbero essere in    grado di bloccare i processi di esclusione sociale e nello stesso tempo di    attivare dei processi di recupero e di reinclusione sociale. La comunità    dovrebbe pertanto diventare l’obiettivo principale dell’intervento, che in    varie forme si mobilita, realizzando qualcosa di diverso dai processi di    esclusione che gran pare della società civile invece mette in atto    sistematicamente in maniera più o meno cosciente. In questo lungo e difficile    percorso le istituzioni dovrebbero aiutare la comunità a crescere a prendere    coscienza di quante situazioni di disagio dipendono dalla scarsa qualità di    vita che la comunità riesce a mettere in atto, quante situazioni di disagio,    quante marginalità sono fortemente dipendenti da una comunità che non ha più    certi valori di riferimento, una cultura dell’accoglienza, un’attenzione alle    generazioni. Fino ad ora poche amministrazioni comunali hanno preso seriamente    in carico il problema, usufruendo del Fondo nazionale per le politiche    sociali. Tali Comuni si sono attivati per la realizzazione di centri e servizi    di prima accoglienza, interventi socio-sanitari e servizi per    l'accompagnamento e il reinserimento sociale, i quali vengono affidati nella    maggioranza dei casi alle organizzazioni di volontariato, alle istituzioni    ecclesiastiche e al privato sociale (cooperative, fondazioni, ecc...),    espressione dell’attuale dinamismo della società civile. Preoccupante è anche    il fenomeno del cosiddetto " blocco anagrafico", cioè la perdita della    residenza e dei documenti di riconoscimento da parte dei senza fissa dimora,    la conseguente dichiarazione di scomparsa e l'impossibilità di usufruire dei    servizi socio-sanitari, di votare, di beneficiare di pensioni di invalidità.    La legge e il regolamento anagrafico di riferimento a livello nazionale    concederebbero la possibilità di iscrizione all'anagrafe del Comune in cui la    persona ha un domicilio, il luogo quindi sede dei principali affari e    interessi, ma spesso gli stessi Comuni hanno interpretato in senso restrittivo    tale norma, con conseguenze molto gravi. La situazione di disagio dei senza    fissa dimora aumenta comprensibilmente nei mesi invernali. In una grande città    come Roma, ad esempio, durante l’inverno appena trascorso, cinque persone sono    morte a causa del  freddo. Tra di    essi anche un giovane di vent’anni. 
In questo contesto MdM agisce con la finalità di portare    aiuto e solidarietà non solo alle popolazioni vulnerabili di paesi lontani ma    anche nelle nostre città. Dal 2003 è attiva a Roma un'unità mobile di MdM che opera nella zona del centro    con volontari medici, psicologi ed infermieri . L’Unità mobile è concepita    come un servizio di prossimità che ha l’intento di fungere da “ponte” tra le    persone, che per varie ragioni sono private del diritto dell’accesso alle    cure, e quei servizi sanitari pubblici che tale diritto devono garantire. Gli    operatori di Roma limitano l'intervento ai casi di pronta risoluzione o di    urgenza, offrendo un'informazione sui rischi per la salute, un orientamento    alle strutture pubbliche specializzate per la cura  delle varie patologie ed un eventuale    accompagnamento, se necessario. MdM    sta studiando la possibilità di iniziare anche a Firenze un programma    sanitario rivolto alla popolazione senza fissa dimora; un equipe di volontari    ha già avviato i primi contatti ed un primo affiancamento  con i soggetti che operano nel    settore. Nella progettazione della nostra azione possiamo usufruire della    lunga esperienza delle altre delegazioni nazionali di MdM, che seguendo la stessa    metodologia hanno attivato iniziative di vario tipo rivolte alle persone che    si trovano sulla strada. Il 21 dicembre dello scorso anno la delegazione    francese, in particolare, si è fortemente mobilitata per avanzare alle    istituzioni pubbliche precise richieste, misure semplici e concrete quali il    diritto ad un alloggio senza limite di durata per le persone che ne siano    prive, abbandonando provvedimenti di emergenza per trovare soluzioni durature    in tal senso. I volontari di MdM    hanno percorso i quartieri della capitale francese alla ricerca di persone che    vivessero e dormissero per la strada, donando loro in totale duecento tende    tipo “canadese”. L’iniziativa ha sorpreso una parte dell’opinione pubblica    parigina che è sembrata accorgersi della realtà dei “senza tetto” solo a causa    della presenza  delle tende blu    che “disturbavano” il paesaggio urbano del centro della città. Le tende    vogliono essere un simbolo, la denuncia dell’assenza di soluzioni concrete e    non congiunturali. Abbiamo infatti riconosciuto che il contributo nel settore    sanitario, come in altri settori, per essere incisivo a livello di    popolazione, richiede il sostegno di politiche pubbliche intelligenti e mirate    all’inserimento nella società dei cittadini che vivono in condizioni di    emarginazione, passando da interventi di emergenza puramente assistenziali ad    interventi duraturi e rispettosi della dignità delle persone.    
http://www.mdmcentrosud.org/solidali/MdM_NS_05.htm
 
 




