domenica 27 febbraio 2011

diario di un clochard

Viva l'accoglienza di Bologna!

Caro barbone, sono 500 euro: concilia?

L'ultima trovata del Comune - commissariato - di Bologna per fare cassa e combattere il degrado del centro storico: multare i mendicanti, con cifre salatissime. E' il nuovo regolamento di polizia urbana, che entrerà in vigore il 1° marzo. E la città delle Due Torri ormai è rossa solo di vergogna

Primo marzo 2011. Da quel giorno sarà in vigore il nuovo regolamento di polizia urbana approvato dal Comune di Bologna. La giunta, retta dal commissario straordinario Anna Maria Cancellieri che siede sulla poltrona di sindaco da quando si è dimesso Flavio Delbono, ha deciso di indurire le azioni contro il degrado. Passino le multe per i locali fracassoni (quella della movida in centro storico è da sempre un terreno di battaglia fra residenti e polo della notte), passi la mano dura contro chi sporca o disturba la quiete pubblica, ma l’accanimento su clochard, mendicanti e lavavetri proprio non è tollerabile. A maggior ragione in una città che da sempre sventola la bandiera della accoglienza e della solidarietà e in cui è già scoppiato un caso - erano i tempi del Sergio Cofferati "sceriffo"- sul lavoro clandestino svolto dagli stranieri ai semafori che, come tutti sanno, è frutto di un racket di cui i lavavetri sono solo l’anello più debole della catena.


Votato il regolamento, subito si sono levate le voci di protesta. Non solo da parte dei partiti di centrosinistra ma anche, e soprattutto, da parte dei sindacati e di quelle associazioni che hanno una lunga tradizione in fatto di lotta alla marginalità, da Piazza Grande all’Avvocato di Strada. Indifferente alle proteste, però, l’amministrazione comunale è andata dritta per la sua strada. Tanto che ancora doveva entrare in vigore che già la polizia municipale era stata messa al lavoro per informare le future vittime del nuovo giro di vite. È dal giorno dopo l’approvazione, infatti, che gli agenti fanno gli straordinari per allontanare, come era previsto peraltro anche dalla precedente normativa comunale, i poveri che chiedono l’elemosina. Per loro le multe sono diventate salatissime: nel peggiore dei casi, la cifra da pagare (ma chi mai la pagherà?) può arrivare fino a 500 euro.

Del resto, chi chiede la carità sotto le Due Torri non si nasconde di certo. Anzi, in centro i luoghi della questua sono noti a tutti. Anche se, a dir il vero, ultimamente barboni e senza tetto dormono pure in quei luoghi in cui mai si erano visti prima. I regali, inaspettati, della crisi economica. Uno dei posti più battuti dai senza fissa dimora è, da sempre, lo scalino che si trova davanti all’ex chiesa di via San Felice all’angolo con via dell’Abbadia, proprio nel cuore della città felsinea. È la che spesso i passanti assistono alle simpatiche scenette con cui i vigili urbani cercano di spiegare, a volte con le dovute maniere altre spazientendosi un po’, che lì dal primo marzo non ci sarà più trippa per gatti.

In un momento, però, in cui le forze dell’ordine e anche la polizia municipale lamentano carenza di uomini e risorse è a dir poco paradossale che si impieghino anche quattro agenti per sbarazzarsi del carrello della spesa con cui, molto spesso, i clochard trasportano le loro cose nello spostarsi, o meglio nel fuggire, da un luogo di riparo all’altro. È successo. Così come è capitato che alla constatazione "Non faccio niente di male" è seguita la risposta "Questa è la legge". Dura lex sed lex. E già, peccato che la legge dovrebbe essere uguale per tutti. In tutte le città di Italia. Col federalismo, se passerà, sarà ancora peggio.

Per ora nessuna multa è stata ancora notificata (anche se i precedenti non mancano), ma presto gli agenti avranno il dovere di farlo. Resta un dubbio: come faranno gli stranieri a sapere dell’esistenza della nuova norma se nessuno glielo comunicherà? E, soprattutto, come faranno a pagare cifre di tali entità se non hanno nemmeno i soldi per garantirsi un pasto caldo? L’unica speranza resta riposta nelle vicine elezioni per il nuovo primo cittadino con l’auspicio che si renda conto che per far cassa, forse, sarebbe anche ora di non andare a bussare sempre alla porta dei più deboli.


Fonte: http://www.giudiziouniversale.it/articolo/tutto/caro-barbone-sono-500-euro-concilia

Lo scontrino?

Regala biscotti al clochard: evasione fiscale


L’altro ieri un clochard si è presentato nella pasticceria di vico dei Notari, in centro storico, e ha chiesto del cibo. Il pasticcere si è impietosito e gli ha regalato tre canestrelli. Erano rotti, non avrebbe potuto venderli e ha pensato di fare una buona azione piuttosto che buttarli nel cestino. Ma fuori dal negozio c’erano i finanzieri. E lo scontrino, per quei biscotti, non era stato rilasciato. Il titolare della pasticceria ha pagato a caro prezzo il suo gesto. Le Fiamme Gialle gli hanno elevato un verbale per mancata emissione di scontrino.

D’altra parte, la legge parla chiaro: la merce di un negozio non può essere regalata in alcun modo. Anche se si tratta di un omaggio gratuito, il commerciante è tenuto a battere uno scontrino a valore zero. Poco importa se i prodotti siano vendibili o invendibili: tutto ciò che esce da una panetteria così come da una boutique deve essere registrato.

l pasticcere non vuole fare polemica con la Guardia di Finanza: «I militari hanno fatto il loro lavoro e sono stati gentilissimi», ha detto. La legge è legge e va rispettata. Quando però c’è di mezzo la solidarietà, a volte, il discorso non è così lineare. «Prendo atto che oggi come oggi non è possibile regalare alcunché - dice il pasticcere - Nemmeno i prodotti che, per qualche difetto, alla fine della giornata, finiscono dritti nei cassonetti dell’immondizia». Anche la pietà, alla fine, deve essere registrata al fisco.

fonte: http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2011/02/27/AOhDU9-evasione_biscotti_clochard.shtml

venerdì 25 febbraio 2011

La leggenda del barbone in fiamme!

tratto da: La Vera Storia del Fegato di C.Bukowski di Emanuele Podestà.



Come un ceppo d’Epifania ardea di luce propria, prima ancora che il bavaglio e zuppo e madido prese così ben fuoco che quasi non gli stettero accanto in bruciore piedi e gambe e pelli spesse, consunte.
Ancor prima, una volta legate braccia ed arti ad una grata, rovesciata il propellente, super, quando non era chiaro di che cosa si parlasse.
E quando, prima di tutto ciò, il più lucente, solitario e dignitoso dei vagabondi della storia fu scelto, ancora non si poteva sapere che di un disperato ardente e futurista gioco di devastazione, le carni a cruce salus, si trattasse, giustappunto.
Questa è, avrete ben capito, la leggenda del Barbone in Fiamme.

Ok. Mi ripropongo uno stile più semplice. Non esageriamo!

Come si sceglie un barbone a cui dar fuoco?
Un momento: perché dare fuoco ad un barbone? Per gioco? Noia? Avrebbero, poi, incolpato società, famiglie e Gulliver, avrebbero chiesto scusa, sempre che qualcuno gliele avesse chiesto: il pentimento messo al mondo [Perché s’interessano così tanto che si faccia la raccolta differenziata e poi ci incoraggiano a figliare spermatozoi con gambe e braccia?]. Sempre che qualcuno s’accorgesse della mancanza di un barbone. In fondo il gioco è a basso rischio per questo: avrebbero provato volentieri a gettare sassi da un cavalcavia, ma se poi ci scappava il morto, e se poi il morto guidava un’auto di lusso e quindi era una persona a cui tanta gente voleva bene? Beh, incendiare un barbone era sicuramente molto più facile. Più democratico. I ragazzi lo scelsero, semplicemente. E quello fu mero esercizio di cernita, uno tra decine. In fondo sono tanti, in una città come questa. Un paio lì, sui marciapiedi, qualcuno in stazione o davanti ad un duomo. Ma quello, quello che scelsero, era sicuramente il più adatto: così scuro da sembrare carbonella. Così solo da dar fastidio. I ragazzi non erano mai soli [Perché si fanno figli? È contro natura, semplicemente].
Ok, vada per quello. Una volta prescelto bisogna allora capire quale modo sarà più divertente. Lo leghiamo ad una panchina? Lo lasciamo libero così, e questo è pregio non indifferente, potremo assistere l’uomo rovente mentre prova la fuga come se fosse possibile lasciarsi dietro lingue di fuoco ed ustione; magari contorcendosi e dando testate ad un muro per il dolore – immaginate che bello? -, sperando di andare così più velocemente verso morte sicura? I ragazzi proposero una grata ed un fazzoletto imbevuto, giusto per non fare troppo rumore. Quanto grida un uomo che sta bruciando vivo? Credo molto, non so [Voglio un figlio]. Credo, sottolineo che non sono sicuro, che se proprio le urla non riusciranno a farsi sentire, una volta acceso, queste si libreranno all’interno della scatola cranica, incrinandola. Forse nessuno lo sa se sul serio un uomo che brucia perisce per bruciatura - causa prima. Ma allora potrebbe morire per altre cose, in fondo. Paura: un motivo, sicuramente: io sarei terrorizzato se nel pieno della notte mi svegliassi infervorato come una torcia. Forse qualche reazione chimica particolare, forse. Magari disidratato, velocissimamente risucchiato d’ogni linfa, ogni succo. E se fosse solo un’abitudine? Ma anche le grida, torniamo a considerare le grida: devono essere insopportabili quelle di un essere umano fra poco sostituito da un cumulo di ceneri.
Alcuni le considerano divertenti, comunque.

Si prepararono nel modo migliore e dopo la scelta, i lacci legati alle mani ed intrecciati sull’inferriata, dopo la benzina più odorosa, fragrante, cosparsa come … su una torta (dava buono al barbone la benzina aromatica?), restava solo da dettargli la procedura, al fra poco barbone bruciante. Non restava altro che gettargli addosso quel fiammifero. Così si fece e così i ragazzi scoprirono un’incredibile verità.

Le fiamme bruciarono gli spaghi, qualche secondo dopo la prima vampa. Il Barbone in Fiamme correva e lo faceva dannatamente veloce. Bastardo pagliaccio! Schizzava da una parte all’altra del tunnel nel quale i ragazzi lo avevano adescato, rimbalzava su stesso e sui mattoni, sui tubi d’acqua che, gioco del destino, gli era privata. Il Barbone in Fiamme non aveva altro nome e da quel giorno la cosa si rese definitiva. E mentre si dimenava, mentre i ragazzi ridevano, il tempo che passava li cominciò a inquietare: era possibile bruciare per così tanto tempo? Un secondo: se ne accorse anche il clochard. Se ne accorse e si fermò. Inceneriva, ardeva, si stava abbrustolendo, ma non stava soffrendo, non sentiva dolore e tanto più non ascoltava la morte incedere. Avvampava, ma stava bene. Avvampava, ma s’era dimenticato qualcosa? I ragazzi e l’uomo si guardarono negli occhi: possibile? Sembravano chiedersi, l’uno nelle palle degli occhi degli altri. Uno strano fenomeno, fisica o chimica, non so. Uno strano fenomeno per il quale il Barbone in Fiamme sarebbe diventato leggenda, l’indigente torcia umana. I ragazzi videro così, per quella sera, i propri piani rovinati.

Una manata volò quanto più forte sul viso del primo ragazzo. Attenzione: i ragazzi erano tre. Volò con forza, quella della riscossa, ed al primo contatto con il quale il palmo si portò alla guancia questa fu interamente carbonizzata. Il ragazzo, uno dei tre, se ne rimase a terra inerme con metà viso incenerito, gran parte del viso rovinato per sempre. Peggio che un sasso dal cavalcavia, per l’appunto. Lo colpì e lo uccise. Lo colpì e le fiamme fecero quello che dovevano, fino al cervello arrivarono, bruciarono la pelle prima, si ficcarono nel cranio e lo uccisero. Il Barbone in Fiamme e la sua vittima a terra. Aveva fatto bene? Non sapeva se la definizione vittima fosse giusta. Ignorava la bontà del gesto. I suoi amici, i quasi-fratelli, quelli che non l’avevano mai lasciato solo, lo lasciarono solo. Cominciarono loro a sbalzare, catapultandosi e sobbalzando da una parte all’altra. Sembrava un ritrovo di idioti in preda ad una crisi. Distanti, se ne andarono così lontani da essere impossibile il loro tallonamento. Ed allora all’uomo incenerito non restò che dare un calcio nel costato del ragazzo a terra. Forse era già morto, ma non vi saprei dire esattamente per quale motivo.

Col tempo si seppe che forse il Barbone in Fiamme non moriva ed intanto non smetteva di bruciare per il troppo lerciume della sua pelle, per lo spessore del laidume, della marcescenza di tanta sporcizia che da sotto le unghie e poi dappertutto s’era a lui radicata addosso.
L’importante, per il clochard, era che non fosse ancora morto.

Qui scriverò, poi, qualcosa sulla lotta per la sopravvivenza. Di sicuro la più grande idiozia, il più dannoso cancro dell’uomo moderno. Ora non so cosa dirvi a riguardo, al di fuori del mio disprezzo.

Alla fermata dell’autobus nessuno gli disse niente.
Vedevano un uomo bruciare, se ne stavano il più distante possibile dalla fiaccola antropica, ma poi non troppo diversamente da quanto facessero solitamente da quei vecchi che a tutti i costi vogliono parlare di qualcosa: tempo meteorologico o tempo perso, soprattutto.

Altri commenti sulla vita di un Barbone in Fiamme, senza dimenticarsi di esagerare. Esempi di vita pratica: quando il Barbone si siede e liquefa il seggiolino sotto il suo potente sedere bollente, oppure quando beve qualcosa che ancora non gli è evaporato in mano e questo s’infiamma appena è lui stesso a gettarselo in volto. E poi cose di questo genere, tanto per rendere la storia un po’ più lunga.
Poi arrivo al finale. E parlo di Evita.

C’era tutto nel suo nome. Tutto ciò di cui un uomo avrebbe avuto bisogno.
C’era la vita, il principio. C’era una congiunzione. Perché è questo “essere” e questo fece per vivere prima di fare il barbone: scegliere dove mettere le congiunzioni. Dove a queste sostituirò una virgola, dove cancellerò tutto e ricomincerò da capo. La libertà è il metodo. Voi, chi s’adopera in questo mestiere, lo chiamate scrittore.
Evita, si chiama. Evita, la donna per la quale smise di scrivere, di parlare di congiunzioni e fare distinzione tra verbi transitivi ed intransitivi, per la quale divenne quello che era, un clochard come tanti. Perché la lotta per la sopravvivenza non ha senso, perché non ha senso dirsi felici e fingersi tali e se anche quel bel pezzo di fica di Evita decide di non sentirti più, di non darti una seconda possibilità, allora tanto vale morire. No, meglio, diventare un Senzatetto. Non credo esista una categoria umana più coerente dei barboni: amare così tanto da incorrere nell’irrimediabile.
La fissava, la porta di Evita. La fissava dal giardino accanto, spargendo distruzione nelle corolle e fili della vicina di sua maestà Evita. Aspettava che questa uscisse. Quando questo successe, estratto dal suo cantuccio tra aiuole e mattoni, il Barbone in Fiamme si parò davanti ad Evita; lei non capì chi fosse, mugghiando. “Ti amo” disse lui. Ed abbracciandola, gonfio e sicuro, si spensero entrambi. Lì, tra l’indifferenza.

Emanuele Podestà (Genova, 11 maggio 1987) La Leggenda del Barbone in Fiamme da "La Vera Storia del Fegato di C. Bukowski", 2009, HabanerO

giovedì 24 febbraio 2011

Il sogno !

Ma perché sognare qualcosa di meglio ? Qualcuno ci dice che cosa è meglio o peggio che dobbiamo valutare ? Chi impone le valutazioni ? Siamo alla ricerca di qualcosa di meglio ma non sappiamo cosa ! Oppure cerchiamo il meglio degli altri ! Fermiamoci e accendiamo il cervello magari qualche barbone ha scelto !

domenica 20 febbraio 2011

Un pò di sociologia!

Autore: Salvatore Patricelli - Università degli Studi di Roma La Sapienza - [2005-06]


Che cosa è la povertà? Analizzare il fenomeno significa abbandonare l’idea di un concetto univoco.
Esistono varie classi di poveri che si formano dall’intreccio di diverse variabili: da quelle socio-economiche a quelle storico-culturali. La povertà è un fenomeno dinamico che accompagna l’uomo dalla sua nascita, e lo segue in tutte le sue fasi evolutive. È un male sociale che investe una parte dell’umanità adottando forme sempre diverse, adeguandosi al mutare dei tempi. Fino a pochi decenni fa costituiva la linea di demarcazione tra i il nord e il sud del mondo, attualmente si sta diffondendo anche nelle società più industrializzate. Le cause di tale espansione del fenomeno vanno ricercate nella globalizzazione neoliberista, nell’internazionalizzazione dei processi produttivi, nella precarietà e nell’aumento dei costi di vita.
Dalle inchieste di Buret e di Engels, alla Social survey di Booth, e ancora agli studi di Simmel e della scuola di Chicago, il povero del terzo millennio si identifica negli uomini separati, nelle ragazze madri, nelle anziane sempre più sole, e nei working poors. L’evoluzione del concetto di senza dimora è legata all’evoluzione del concetto di dimora non intesa più esclusivamente come bene materiale, ma come insieme di relazioni sociali all’interno del quale l’individuo forma la propria identità. L’esclusione da questa rete di socializzazione conduce all’esclusione sociale che può degenerare, se sussistono fattori contingenti, a condurre una “vita per strada”.
Sono “invisibili” soprattutto perché dimenticati dalle istituzioni socio-politiche, da ciò ne deriva l’inderminatezza sia del numero che dell’identikit. Se l’Istat non è in grado di fornire dati precisi su questo fenomeno, nel 2000 un’indagine della Fondazione Zancan di Padova, incaricata dal Ministero del Welfare, rilevò in una sola notte la presenza di circa 17000 persone nelle strade, nelle piazze e nei centri d’accoglienza delle città italiane. Da qui la necessità di promuovere il maggior numero di studi nella materia per conoscere i nuovi poveri. La metodologia che ho adottato nella mia tesi, per analizzare i nuovi senza dimora, si è concretizzata in una serie di quattro interviste qualitative ai rappresentanti delle rispettive tipologie. Tale studio mi permette di confermare che la tradizionale figura dell’homeless viene affiancata, ma non sostituita, da nuove tipologie aggravando così la situazione sociale. Oltre ai dati mancano efficaci e mirate politiche sociali che facciano fronte ad un problema oggi aggravato dalla vulnerabilità figlia di quella stessa società che dovrebbe garantire sicurezza e stabilità, e che invece sembra creare e riprodurre sempre di più “nuovi rischi sociali”.

fonte:http://sociologia.tesionline.it/sociologia/tesi.jsp?idt=17988

La notte dei senza dimora

Un pò di cultura!

"Ecco come ho tradotto lo slang"

di Maria Simonetti

Intervista a Luciana Cisbani, curatrice della versione italiana del romanzo "Da qui vedo la luna" di Maud Lethielleux, ambientato tra gli homeless francesi




«Noi siamo gli addetti alla vita grama non stop, i volontari del campare per strada, la miseria a tracolla...». Racconta la storia - vera - di una clochard il romanzo "Da qui vedo la luna" della francese Maud Lethielleux, in un tono ruvido ma ricco di humour e intensità. L'ha tradotto in italiano per la casa editrice Frassinelli Luciana Cisbani, 49 anni di Crema: non deve esser stato facile per lei districarsi tra gli slang e i modi di dire del linguaggio di strada che usano Moon, la protagonista, e i suoi amici.

Come se l'è cavata, Cisbani?
«È stato un lavoro di certo appassionante per la gran qualità del testo originale, ma molto molto difficile. Perché in Francia il linguaggio argotico, diciamo il gergo parlato, è standardizzato su tutto il territorio, e per tradurre questo in italiano possiamo far ricorso talvolta solo a termini regionali. Ovviamente ho cercato di rispecchiare quanto più fedelmente la scrittura dell'autrice. Nelle prime 30-40 pagine il suo é un parlare sgrammaticato e spesso scorretto che evolve nel corso del romanzo, la protagonista Moon si sta addomesticando attraverso le parole. E man mano acquisisce consapevolezza, anche linguistica.»

In che modo si é documentata sullo slang degli abitanti della strada?
«Io ho quasi 50 anni, i dizionari sono tanto belli e utili ma per questo lavoro ho avuto bisogno di entrare di più nel reale. Ho consultato libri, siti internet, amici e figli degli amici: controllo sempre con i più giovani le mie traduzioni per testi così marcati a livello di linguaggio generazionale e sociale. Ho baciato quella ragazza che, alla mia domanda su come chiamano tra di loro i gruppetti di giovani punk che vivono in strada con i cani, mi ha fornito il bel neologismo "punkettuso"».

Nella nostra Slangopedia c'è "dredduso", un termine che viene da Torino e indica un tipo con i dread locks: abbastanza simile. In effetti nel confronto con la sua traduzione molti termini coincidono nello stesso significato, altri no. Prendiamo il verbo "squattare". In inglese vuol dire occupare (gli squat sono le case che vengono occupate dagli squatters), e lei lo usa in questo senso. A Parma, invece, come risulta nella Slangopedia, squattare vuol dire scoprire, cogliere in flagrante, beccare, sinonimo di sgamare.
«Nel nostro mestiere ci sono due scuole di pensiero: chi sceglie di portare il testo verso il lettore e chi, viceversa, di portare il lettore al testo. Io sono per la seconda, secondo me si può far fare un po' più di fatica al lettore e spingere il linguaggio un po' più in avanti. Ecco perché traduco «non mi vergogno di fare quella che squatta un letto caldo»: qui, come in altri casi, inserisco termini di nicchia, calchi riadattati da altre lingue. Per qualcuno il verbo squattare sarà completamente trasparente, per altri oscuro. Io ho voluto restare fedele alla cifra stilistica di questo personaggio marginale: Moon e i suoi amici non parlano certo un francese strandard. E l'ultima cosa che l'autrice avrebbe voluto era che la sua scrittura venisse "normalizzata"».

Come Moon, la clochard, che scrive una storia e ha paura che le Case Editrici gliela stravolgano. Un altro esempio di bel neologismo inventato da lei é "vita da randa", per dire vita da randagia...
«Sì, è un troncamento fatto da me. Troncare le parole é un procedimento tipico dell'argot, che io ho mantenuto in termini come depre (ssa), non funzia (non funziona), raga (zzi), para (noia). Ho usato un linguaggio neostandard, quello parlato nel nord e centro Italia, con ovvie acquisizioni regionali. Si troveranno quindi anche sciallo, minchione, pirla, infrattare, pischello.»

«C'è qualche termine slang che le é stato cassato dalla casa editrice Frassinelli?
« No, ho lavorato in assoluta libertà. Mi hanno cambiato solo ciulare (rubare) perchè troppo milanese».

fonte: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/ecco-come-ho%20tradotto-lo-slang/2144882

Le primizie del bidone: le ricette dei clochard!

In origine era solo un’idea come un’altra. Ogni ospite del centro, a turno, ogni domenica avrebbe cucinato per tutti gli altri ospiti della struttura. Ovviamente il budget era molto limitato, poiché si trattava del pranzo dei senza dimora.


NASCE IL LIBRO - Domenica dopo domenica, pranzo dopo pranzo, padella dopo padella, ecco venir fuori della fantasia e dalla sperimentazione degli homeless (i senza casa) di Binario 95 - l'help center della stazione Termini di Roma - un vero e proprio libro di ricette. Invenzioni culinarie ora raccolte in Cuochi della domenica, un libro che verrà presentato la prossima settimana. La presentazione, ovviamente, prevede una cena in un ristorante di Roma, dove si potranno apprezzare le specialità dei clochard. Il volume, edito dalla casa editrice EcEdizioni, alle ricette dei senza dimora ne aggiunge una molto particolare, quella del cuoco siciliano Filippo La Mantia.

DISEGNI E PITTURE - Nel libro oltre alle ricette, ci sono disegni, pitture, poesie e consigli cinematografici, che uniscono in un unico prodotto tutte le "specializzazioni" presenti al centro diurno. "Un modo - spiega Alessandro Radicchi, presidente della cooperativa sociale Europe Consulting che gestisce il centro diurno - per dare il giusto riconoscimento a ognuno: essere presenti con il proprio nome e cognome in un vero libro, regolarmente stampato, rappresenta un motivo di soddisfazione personale molto importante per ciascun ospite del centro". Nella pubblicazione trovano spazio anche illustrazioni pittoriche realizzate dai partecipanti al laboratorio di pittura, senza dimora che avevano in passato visto le loro opere esposte in alcune mostre a Roma e in una realizzata a livello europeo alla Gare du Nord a Parigi.

fonte: http://www.libero-news.it/news/672316/In_un_volume__le_primizie_del_bidone___le_ricette_dei_clochard.html