giovedì 21 agosto 2008

Storia di Rosa

Rosa è greca, nata da genitori greci a Corfù.
Quando lei era piccola i genitori si trasferirono in Italia ed andarono ad abitare al rione Baronissi. Restata sola cercò in tutti i modi di darsi da fare facendo la donna delle pulizie, stirando panni, ma - come successe a Carmela di cui vi ho già parlato - non ce la fece a sostenere le spese della casa, delle bollette, del mangiare.

Lasciata la casa trovò delle amiche che la ospitarono; nacquero però problemi di convivenza e lei finì per la strada. Rosa dorme nella zona della biglietteria della stazione su di un carrello. Durante la giornata è sempre in giro, prende i pullman in modo casuale e se ne va in giro per Napoli. Quando è una bella giornata è facile trovarla nella zona di piazza Vittoria o della Villa Comunale dove, presso le fontanine, lava i suoi indumenti intimi mettendoli poi ad asciugare sulle panchine dei giardinetti.
Rosa è una persona pulitissima ed a incontrarla per la strada non si penserebbe mai a lei come ad una barbona. Aspetto dignitoso, donna forte, vestita sobriamente, con una borsa, che potrebbe essere la borsa della spesa di qualsiasi casalinga, dove c'è tutta la sua casa.

Rosa, quasi per reazione al suo stato, cura in modo pignolo la sua pulizia. Tutte le mattine si sveglia verso le 5 e per prima cosa va nei bagni della stazione dove si lava, praticamente dalla testa ai piedi, con l'acqua gelata perché la calda non c'è. Lei dice che se non lo facesse starebbe male, che la pulizia è la prima cosa.
Quando la sera al tramonto rientra alla stazione, con uno straccio bagnato lei lava il posto dove sistemerà il carrello per dormire. Non vuole essere considerata una barbona; le prime volte che la incontravamo lei si arrabbiava moltissimo perché le davamo le stesse cose che davamo anche agli altri.

Capimmo la sua difficoltà e preparavamo una busta particolare solo per lei, andando prima da lei e poi dagli altri. Non è che lei si sentisse migliore degli altri ma è che lei sentiva il peso di una vita indesiderata alla quale si ribellava. Spesso quando parla di sé piange e dice che se fossero stati vivi i genitori tutto questo non sarebbe successo.
Ha delle amiche che ogni tanto la invitano a pranzo a casa e lei accetta molto volentieri; guai a parlarle di istituti. Rosa è molto devota alla Madonna di Pompei e tutte le mattine da tempo va' nella chiesa di S. Nicola alla Carità. Qui c'è un quadro con l'immagine della Madonna che lei, tutte le mattine, con il consenso del parroco, pulisce sostituendo anche i fiori secchi con fiori freschi, presi magari dai vasi che sono davanti alle altre immagini sacre.

La settimana scorsa mentre era presa dalla pulizia del quadro le hanno rubato la borsa che aveva poggiato a terra con i documenti e tutta la pensione che aveva preso da poco.
Rosa ha compiuto 65 anni ad aprile e da qualche mese prende la pensione sociale con cui però non riesce nemmeno ad affittare una stanza. Negli ultimi tempi, se qualcuno si avvicina, è sempre più facile trovarla nervosa. Si corre il rischio di essere cacciati via. Purtroppo lei sente il peso degli anni che passano ed avverte la difficoltà fisica di non riuscire a fare quello che ha sempre fatto. Da qui credo che venga questo suo essere arrabbiata. Lei ha bisogno più che mai di amicizia e di non sentirsi sola.

giovedì 14 agosto 2008

Storia di Raffaele

Raffaele era un mio coetaneo, aveva circa una quarantina di anni.
Un ragazzone alto, grosso, pieno di forze, una vita normalissima. Aveva avuto una famiglia. Era napoletano ma aveva trovato lavoro in Toscana, era falegname. Aveva un figlio, una moglie, una casa, d'estate andava in vacanza al mare, a Natale e Pasqua veniva a Napoli a trovare i parenti.

Sognava un futuro bello per il figlio, magari una casa più grande, una macchina nuova, i suoi sogni erano i sogni di tanti. Ma che cosa succede? Un giorno la moglie che era in macchina con il figlio fa' un incidente e muoiono tutti e due.
Inizia per Raffaele il calvario di un dolore che si trasforma in depressione: la vita non ha più senso, perde anche il lavoro perché non riesce più a farlo. In una spirale di dolore e sconforto Raffaele finisce per la strada. I suoi parenti? non lo so, so solo che lui finisce per la strada. La vita certe volte è assurda.

Ed io che pensavo che quella del barbone fosse una scelta!
Con Raffaele avvenne come un piccolo miracolo. Un mio amico che aveva un ristorante cercava qualcuno che lavasse i piatti, lo proposi a Raffaele e lui accettò quasi sorpreso che mi fossi preoccupato di lui. Iniziò a lavorare, si affittò una stanza andando via dalla stazione. Oggi Raffaele lavora al nord, credo che si sia formato una nuova famiglia. Il muro che separa il mondo "normale" da quello degli emarginati spesso è cosi alto che rende difficile anche realizzare tentativi di reinserimento.

Chi sta per la strada vede il mondo da una prospettiva diversa dalla nostra, vede un mondo frettoloso, distratto, lontano e sente poco probabile per lui la possibilità di soluzioni diverse.
Molti pensano: ma chi darà lavoro a persone che vivono per la strada ? Che affidabilità possono dare? Non sono solo scuse. Infatti chi non riesce a mantenersi pulito prova vergogna, scatta un pudore rispetto agli altri: si prova vergogna anche ad avvicinarsi a qualcuno per chiedere aiuto.


http://www.psgna.org/poveri/barb06.htm

mercoledì 13 agosto 2008

Storia di Vincenzo " o bersagliere"

Vincenzo non era un barbone della stazione ma stava in uno dei quartieri periferici della nostra città. Si chiamava "o bersagliere" perché aveva fatto il soldato come bersagliere e lui era fiero di questo soprannome.Un pezzo d'uomo, sposato con tre figlie femmine e un maschio, lavorava in un cantiere edile come mastro, era molto in gamba ed era contento di quello che faceva.

Un giorno torna a casa e trova la moglie a letto con un altro. La sua reazione fu quella di andarsene di casa, e cominciò a dormire per la strada. Trovò una macchina abbandonata e quella divenne la sua casa; nel frattempo incominciò a bere.Un giorno si fece male al piede e seguì una infezione che gli procurò una cancrena a causa della circolazione compromessa dall'alcool. Gli amputarono la gamba destra ma lui continuò a vivere allo stesso modo: si aiutava con una stampella di legno.
Dopo qualche anno si ripresentò lo stesso problema alla gamba sinistra. Era diventato alcoolista e la circolazione andò a farsi benedire. Gli amputarono anche l'altra gamba: il bersagliere era ridotto sulla sedia a rotelle senza le due gambe. Dall'ospedale fu mandato per la convalescenza dalle suore di Madre Teresa in Via Tribunali. Ci sarebbe potuto restare per molto tempo ma un giorno litigò con le suore ed andò via. Ritornò nel suo quartiere dove era sempre vissuto e dove c'erano anche le sue figlie alle quali a modo suo voleva bene ma che, di fatto, lo ignoravano. La sua situazione certe volte mi sembrava irreale: un barbone senza le gambe che in carrozzella girava per il quartiere.

Vincenzo viveva della carità della gente che conosceva. Tutti i sabati mattina andavo a prenderlo con la macchina, mettevamo la carrozzina nel portabagagli e lo accompagnavo in un istituto di suore a lavarsi e a cambiarsi. Il sabato in questo istituto c'era la possibilità di farsi la doccia e di avere indumenti puliti. Era un momento che lui aspettava non solo perché riusciva a ripulirsi - e lui ci teneva - ma anche perché era un'occasione per poter parlare, lamentarsi, sfogare con qualcuno i propri malumori.
Certe volte pensavo che mi aspettava più per questo motivo che per la doccia. Lui viveva della carità delle persone e questo nella sua situazione era necessario, ma non sempre trovava qualcuno che si fermava ad ascoltare e a parlare con lui.I suoi compleanni i suoi onomastici erano occasione di festa e gli ultimi due natali della sua vita li avevamo trascorsi insieme. Dopo cena passavo a prenderlo e veniva anche lui alla messa di mezzanotte con me. II suo dolore in queste festività era ancora più forte perché non riusciva ad accettare che i figli stessero a casa a festeggiare e lui doveva restare da solo per la strada.

La situazione sembrò cambiare, quando gli arrivarono gli arretrati della pensione d'invalidità, qualche decina di milioni. Una delle figlie lo prese in casa e cominciò a prendersi cura di lui. Durò un mese e mezzo, finiti i soldi, finì anche la capacità di sopportazione della figlia e lui tornò per la strada. Non voglio lanciare accuse contro nessuno perché effettivamente Vincenzo non era una persona facile: beveva, era handicappato, un po' prepotente, non era sicuramente facile avere un rapporto con lui. Erano evidenti le difficoltà con la famiglia. Quello che penso è questo: spesso le difficoltà sono vissute non come problema da affrontare e risolvere, facendosi anche aiutare, ma invece come scusante per non fare una cosa. Voglio dire che non condanno l'incapacità di affrontare una situazione, perché nessuno di noi può giudicare, ma mi sconcerta l'isolamento affettivo, l'emarginazione umana e sociale, per cui una persona che perde i punti di riferimento ha difficoltà anche nello scambiare una parola con qualcuno.
Finiti i soldi dovette ritornare nella strada; la delusione fu fortissima, incominciò a bere ancora di più. II momento più difficile fu quando venne coinvolto da persone del quartiere che conosceva, in un traffico di droga. Per circa una settimana fece da corriere perché nelle sue condizioni non era sospetto, quindi poteva muoversi per il quartiere liberamente. Mi raccontò che gli era stata fatta la proposta di collaborare, dietro un compenso di circa 50.000 lire al giorno, cifra enorme per una persona nelle sue condizioni. Questo è un aspetto molto triste della nostra realtà così piena di problemi, dove lavorare è un lusso e dove la malavita è pronta a cogliere le occasioni e approfittare del bisogno delle persone.

Devo dire che in quell'occasione Vincenzo dimostrò un grande buon senso, comprese che era preferibile fare delle rinunce più che sporcarsi le mani con la morte di qualche giovane. Uno dei suoi generi era tossicodipendente e capì che per assurdo poteva essere lui ad alimentare le difficoltà della figlia: per questo mandò tutto all'aria e ritornò a vivere di elemosina rinunciando a quel guadagno facile.La mia amicizia con lui fu di aiuto per le persone del quartiere: queste si resero conto che con lui era possibile avere un rapporto diverso. Cominciavano a vederlo con uno sguardo più comprensivo. Vincenzo morì per cirrosi epatica, dopo circa un anno da quando era stato mandato via dalla figlia, mentre si trovava ricoverato all'ospedale S. Gennaro.

venerdì 8 agosto 2008

L'elemosina è un diritto

Il Vaticano ai sindaci «Va rispettato anche chi rovista nei rifiuti»

«L'elemosina è un diritto», no ai divieti

Il cardinale Martino: non si neghi il soccorso. «È un diritto umano fondamentale»

ROMA - «Combattere il racket dell'elemosina senza ledere il diritto di chiedere aiuto»:
così il cardinale Renato Martino - presidente del consiglio vaticano Giustizia e pace e di quello per i Migranti e gli itineranti - riassume il giusto atteggiamento cristiano di fronte all'aumento dei questuanti metropolitani, dei profittatori della generosità del prossimo e degli «accattoni molesti». Afferma anche che la proibizione dell'accattonaggio servirebbe a «nascondere » il bisogno invece di «rispondere a esso».
Ma l'atto dell'elemosinare ha ancora un senso nel terzo millennio? Possibile che non ci sia altra via per affrontare i casi di estremo bisogno? «Fino a oggi - risponde il cardinale - un'altra via non si è trovata e io credo che non si troverà presto se Nostro Signore ebbe a dirci: "I poveri li avrete sempre con voi". Si sconfigge una povertà e ne nasce un'altra». E' vero che oggi ci sono tanti aiuti di enti e associazioni che vanno incontro a chi ha bisogno ma il cardinale osserva che «c'è il povero che non ha accesso al soccorso istituzionale perché senza documenti, c'è quello a cui quel soccorso non basta e c'è quello che per sua singolarità lo rifiuta e cerca aiuto nelle strade».Va dunque difeso il diritto a chiedere l'elemosina per strada? Questa la risposta di Martino: «Credo sia un diritto umano fondamentale, quando si è alla fame e al freddo. È il diritto del vero povero a cercare come può un pezzo di pane e quindi anche a chiedere aiuto e a fare appello al prossimo per risvegliarne il sentimento di umanità». All'obiezione che tanti ne approfittano e che ci sono bambini costretti a elemosinare, il cardinale replica che «va perseguito il profittatore e va combattuto il racket dell'elemosina, ma se proibiamo l'elemosina ci neghiamo al soccorso da uomo a uomo e non incidiamo minimamente sulle cause del fenomeno ».
Martino non vuole commentare le misure contro l'accattonaggio molesto annunciate dai sindaci di grandi città - da Venezia a Roma - che così cercano di andare incontro al fastidio che quel fenomeno provoca nella cittadinanza e nei visitatori: «Non giudico i singoli provvedimenti che possono avere le loro giustificazioni ma reputo inaccettabile la proibizione dell' elemosina in generale. Ci vedo una tentazione a chiudere gli occhi davanti al bisogno o a guardare dall'altra parte. Le autorità dovrebbero piuttosto aiutare la popolazione a cogliere la vera portata del bisogno non ancora coperto, o raggiunto, da nessuna forma di previdenza sociale». A proposito dell'idea di proibire ai barboni di rovistare nei cassonetti - pratica che metterebbe a rischio l'igiene dell'ambiente urbano - il cardinale dice: «Se in una città o in un quartiere vi sono persone che per sopravvivere hanno bisogno di rovistare nei rifiuti vuol dire che in essi è a rischio molto di più che l'igiene ambientale!

Quel fenomeno l'ho visto nelle Filippine, in Africa e in America Latina ed è vero che nei Paesi del benessere si dovrebbe essere in grado di prevenirlo, ma se non si riesce a prevenirlo, si rispetti almeno quella dolorosa necessità di rovistare tra le immondizie».

Luigi Accattoli
Corriere della sera 08 agosto 2008

mercoledì 6 agosto 2008

storia di Carmela

Carmela è una persona completamente diversa dagli altri amici conosciuti alla stazione. È un'anziana che ancora oggi vive tra la stazione, la Circumvesuviana, Corso Garibaldi e piazza Garibaldi. È sempre tutta vestita di scuro ed ha sempre con sé delle buste di plastica con le sue povere cose. Carmela è una persona molto chiusa, difficilmente parla, il più delle volte ti manda via.

Poche volte sono riuscito a parlarle. Lei era figlia di un dipendente delle poste impiegato alla Posta Centrale; lavorava andando a stirare a casa delle persone benestanti del posto, non si era sposata. Da giovane, con i genitori abitava verso S. Lucia. Dopo la morte dei genitori si era trovata senza la possibilità di mantenersi ed era finita per la strada.
In stazione era arrivata da qualche anno, prima viveva nella zona di S. Lucia. I tanti anni passati per la strada l'hanno un po' confusa. Non è difficile vederla mentre scava nei cassonetti della spazzatura per trovare qualcosa da mangiare.

Chiede anche soldi, e guai a darle di più di quanto domanda; se chiede duecento lire e gliene dai cinquecento, ti da trecento lire di resto. A lei piace molto il giornale "Bella" che legge tutte le settimane, segue con passione tutti gli articoli di medicina che vengono pubblicati. Quando sta male si cura da sola. Una volta sola sono riuscito ad andare al bar con lei a prendere un caffè; lei aspettò che glielo portassi fuori, perché nel bar non l'avrebbero fatta entrare.
Quando le dissi che stavo studiando teologia, mi disse: Guarda, senza che perdi il tempo, preoccupati di seguire i comandamenti di Gesù, ama il Signore e vuoi bene al tuo prossimo come te stesso.

Mi lasciò di stucco!

domenica 3 agosto 2008

storia di LIDIA

È stata la persona più incredibile che abbia mai incontrato: alta un metro e 50, un caschetto di capelli bianchissimi, uno sguardo che brillava di furbizia, 80 anni circa di età, una vitalità enorme e soprattutto una donna coltissima con la quale si poteva parlare di tutto e anche con un linguaggio ricercato.

Lei raccontava di essere stata molto ricca da giovane e personalmente avevo verificato che molte delle cose che mi aveva raccontato erano vere. Una vita vissuta nell'agiatezza, vacanze, viaggi, proprietà immobiliari; diceva di essere figlia o nipote di "Pizzicato", una grande rosticceria che prima era in Piazza Municipio.
Viveva a Pozzuoli, poi dopo il terremoto era andata a Castellammare insieme alla cognata. Morto il fratello, lei e la cognata avevano vissuto sempre insieme. Lidia accudiva la cognata che nel frattempo accusava con l'età problemi di lucidità. Lidia aveva inoltre una sorella con la quale però i rapporti erano pessimi e che non aveva voluto più sentire parlare di lei.

Lidia aveva vissuto una vita molta tranquilla con la sua casa da accudire: faceva la spesa, cucinava, doveva essere una bravissima cuoca.
Cosa succede nella sua vita? Un giorno Lidia cade, si frattura una gamba, resta in ospedale per più di due mesi e al ritorno trova la sgradita sorpresa che l'assistente sociale aveva provveduto a rinchiudere in istituto la cognata e che anche per lei era stata pensata la stessa cosa.

Ma lei si ribella: in istituto non ci sarebbe mai andata, e all'età di circa ottanta anni, Lidia, cosa incredibile, va a finire alla stazione. L'istituto è la soluzione più immediata rispetto al problema di chi è anziano ed è da solo a casa; ma il problema è che spesso gli anziani in istituto non ci vogliono andare.
Una volta venni a sapere, nel periodo in cui lei viveva alla stazione, che si era ammalata ed era stata ricoverata in ospedale; da lì l'assistente sociale era riuscita a mandarla in istituto. L'andai a trovare, e Lidia mi supplicò di portarla via, mi disse che lei stava male, non voleva stare in quella struttura. Quella volta non ebbi il coraggio di farlo, ma la volta successiva venne via con me e la riaccompagnai alla stazione.

Fu un'esperienza traumatica per me. Avvenne l'esatto opposto di quello che io pensavo. Anche per me l'istituto era una soluzione; non che non lo sia in tanti casi; ma mi ero reso conto di assolutizzare le soluzioni; voglio dire che io avevo una soluzione standard per tutte le situazioni. In particolare ero dalla parte di chi pensava: "perché certe persone devono stare per la strada, non sarebbe meglio che stessero in un posto dove alcuni potrebbero prendersi cura di loro, dove avere un piatto caldo, un letto, un tetto?
La risposta non è semplice, è complessa. Ognuno di noi ha un suo bagaglio di esperienze, ha una sua storia particolare: ci sono abitudini diverse, capacità diverse di relazionarsi e caratteri diversi. Per me vedere questa anziana - arzilla ma sempre anziana - preferire la stazione a quello che per me era il necessario e il sicuro, mi fece capire quanto fosse forte la tentazione di voler imporre agli altri il proprio punto di vista, il proprio modo di vivere senza preoccuparsi minimamente di chiedere: "Scusa, ma tu di che cosa hai bisogno? Scusa, ma tu che cosa vorresti veramente?

Con la presunzione di sapere io cosa poteva servire agli altri. È stata un'amicizia molto bella, era un piacere incontrarla: chiedeva di me, si informava, mi dava consigli. Da esperta di cucina qual era, certe volte stava anche un'ora a parlare di ricette. Spesso si lamentava che il mangiare che i volontari portavano era cucinato male; e si addentrava in spiegazioni dettagliate di come invece si sarebbe dovuto cucinare quel piatto.
Molti dei suoi soldi erano spariti a causa di persone che approfittavano della sua disponibilità e anche del suo bisogno. Per andare a prendere la pensione c'era sempre qualcuno che si offriva e spesso lei tornava a casa con molti soldi mancanti. Lei era una donna molto intelligente ma restava una semplice e una ingenua.

Negli ultimi tempi, ogni due mesi, l'accompagnavo con la macchina a Castellammare a ritirare la pensione. La prima cosa che lei faceva era di darmi i soldi per la benzina perché non voleva approfittare. Se qualche volta veniva fuori il discorso dell'istituto, lei diceva sempre: "Ma tu mi vuoi far morire? Ma ti rendi conto che lì si muore di solitudine?"
Non si era mai sposata perché pur avendo avuto molte persone che le facevano la corte non si era mai innamorata veramente, né lei si sarebbe mai sposata tanto per farlo. Era una che teneva banco, una gran chiacchierona, una grandissima dignità anche mentre si grattava per il prurito causato da una igiene poco curata per ovvi motivi; ma quando veniva in macchina con me, si faceva trovare tutta ordinata e con abiti puliti. Le avevo anche dato il numero di telefono del mio ufficio, non se lo era scritto, lo ricordava a memoria e in casi particolari mi chiamava.


http://www.psgna.org/poveri/barb03.htm