giovedì 29 maggio 2008

L'obolo della vedova

Nuovo Testamento "Marco 12"

[41]E sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte. [42]Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino.
[43]Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: «In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. [44]Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».


Visto così, il senso del racconto è tutto di tipo etico.
La vedova è "generosa" non tanto perché "ha pensato" di fare l'offerta, lei che avrebbe potuto obiettivamente farne a meno, né perché ha dato i due leptà a Jahvè o ai poveri più poveri di lei, ma proprio perché in quella misera offerta essa ha dato "tutto quanto aveva per vivere".


Riflettere...........

giovedì 22 maggio 2008

Una Monetina

Una monetina a te una a te
una monetina pure a te
così fanno tre
Una monetina per questa serata che non può finire
una per trovarti e l'altra per sparire
Una monetina a te una a te
un'altra monetina pure a lei così fanno sei
Una monetina per sapere che non ho sbagliato mondo
Adesso, le riconto se no mi confondo. . .
Daniele Silvestri

lunedì 12 maggio 2008

Un Mondiale da veri "barboni"

Tra le nazionali del campionato per homeless

MARCO ANSALDO
INVIATO A COPENAGHEN della Stampa


Saul Ernesto Vazquez, piccolino e con la fisionomia india di chi è nato nel Salvador, sta seduto sulla precaria gradinata davanti al municipio di Copenhagen. Appena dietro l’angolo c’è la statua di Hans Christian Andersen, raffigurato con la tuba e il bastone, ma Saul quando gli è passato davanti non si è preoccupato di sapere chi fosse: nella sua vita non c’è posto per le favole e neppure questa lo è stata. L’Italia di cui è il capitano non ha ottenuto quanto si aspettava finendo lontana dai primi posti nella Coppa del Mondo di questo strano sport che è il calcio di strada e domani si torna alla vita di tutti i giorni, in lotta con lo stipendio che arriva quando te lo possono pagare e il permesso di soggiorno che da vent’anni c’è a singhiozzo e l’ultimo è scaduto prima di partire per la Danimarca e quando è andato a rinnovarlo gli hanno detto che mancava un documento. «Ogni quattro anni è la stessa storia - racconta -, manca sempre qualcosa. Come se aver costruito una famiglia in Italia, comportandosi onestamente e accettando i lavori che altri non fanno non bastasse per darmi fiducia. In un certo periodo ero custode in un cantiere.
Dormivo nel container ma un container per loro non è un domicilio e dicevano che non avevo fissa dimora. Niente permesso».
Gliene hanno rilasciato uno provvisorio per venire qui proprio perché è un nazionale italiano seppure della Nazionale più diseredata del Paese, quella dei senzatetto: Saul indossa la maglia azzurra con la fascia al braccio come Cannavaro, e probabilmente canterebbe l’inno di Mameli se fosse previsto dal cerimoniale, che lo evita perché il mondo degli homeless non ha confini e poi sarebbe scomodo con 48 squadre che si incontrano un’infinità di volte nella giornata, ogni venti minuti c’è una partita nuova. «Rientro a Milano e vediamo che succede», dice Saul, con un languore nello stomaco che non è solo delusione, è fame vera perché gli organizzatori hanno trovato a tutti un buon ostello dove dormire, ma il vitto è scarso e tre partite al giorno prosciugano. I pochi soldi finiscono al McDonald’s sulla piazza, sempre sotto lo sguardo immobile del signor Andersen.
La Coppa del mondo per i senza tetto è un’invenzione di pochi anni fa. Idea di Mel Young e Harald Schmied, uno scozzese e un austriaco, editori di riviste che i «barboni», come si diceva in tempi politicamente scorretti, vendono per le strade ricavando di che vivere: quella di Mel tira 40 mila copie in Scozia e lui è il presidente onorario del network internazionale che raggruppa 60 di queste pubblicazioni in tutto il mondo, 30 milioni di copie all'anno, cento mila persone che ci campano almeno un po’. Nei loro giornali già esisteva una squadra di «street soccer» che non è il calcio vero e neppure il calcetto. Si gioca tre contro tre più i portieri, in un campetto con le sponde alte come nell’hockey su ghiaccio e con le porte piccole, il terreno è un assemblaggio di quadrati di gomma dura, il pallone è di plastica, ha traiettorie difficili da addomesticare e non ci si ferma mai: anche per questo, 14 minuti di gioco divisi in due tempi sono abbastanza per marcare la differenza. I due inventarono un Mondiale che si gioca dal 2003 e oggi coinvolge 48 Paesi: per parteciparci bisogna aver avuto nell’ultimo anno problemi con la droga, l’alcool o la casa, essere finiti in qualche ricovero per mendicanti o vendere giornali per strada, come fanno i giocatori dell’Argentina, ex disperati di Buenos Aires «dove - dice Sergio, che li guida - le crisi del ’90 e del 2001 hanno tolto la casa a molta gente e la sicurezza di campare». Qualche sponsor li ha aiutati a pagare il viaggio, il Governo danese e la municipalità di Copenhagen offrono il soggiorno, per le piccole spese rastrellano la sera bottiglie e lattine vuote che rivendono a un supermercato sulla via. Li abbiamo visti prendere 8 gol dall’Uganda («manca un Maradona - sorride Sergio - come vede non c’è il numero 10»). Qui le gerarchie del calcio mondiale non contano, perciò succede che l’India stravinca sulla Svizzera e i finlandesi strapazzino la tenera Spagna di Isabel e di Paco, un tipetto con il codino e l’aria di chi ne ha viste più di Keith Richards, di cui è quasi coetaneo. La Spagna è già ad occhio una squadra «barbona», altre insospettiscono. Pur di vincere c’è chi ha portato gente rimasta senza tetto solo quando ha fatto le vacanze in tenda. «Abbiamo cercato invano una definizione mondiale di homeless - spiega Mel Young - perciò ci affidiamo alle regole di ciascun Paese: in Inghilterra ad esempio è senzatetto anche chi sta in un ricovero, in Africa lo è soltanto chi dorme all’aperto. In genere cerchiamo di essere elastici, siamo qui per coinvolgere più gente possibile, non per accantonarla ancora, e per dare una speranza a chi ha poco.
Quasi l’80 per cento di chi ha giocato il Mondiale ha potuto cambiare vita e finalmente abbiamo convinto molti governi a introdurre lo sport come una delle priorità nelle politiche di recupero dall’emarginazione». Gli africani sono quelli che ci credono di più. In Burundi erano in 5 mila a vedere la partita di selezione, la Nigeria aveva fissato un premio in caso di vittoria, il Sudafrica ha in squadra gli ex-capi di cinque gang che spacciavano droga a Città del Capo: dicono che il commercio ha frenato un po’. In compenso tanti non torneranno a casa. Mezza squadra della Liberia, appena messo piede a Copenhagen, è scomparsa, meglio diventare clandestini arrivando in Europa con l’aereo che sui barconi a Pantelleria. Invece gli italiani, tutti extracomunitari tranne un milanese, Mauro, più che homeless sono «sans papier». Chi ha il permesso, come Sergio Basile, l’oriundo capocannoniere argentino, manca peraltro di lavoro e vive in una casa della Caritas, da dividere con tre rumeni e un africano. Wilson e Anderson vengono dal Brasile e intendono fare davvero i calciatori tanto che, per cominciare bene, in attesa di una Velina si sono trovati un procuratore: Anderson dice che forse gli hanno trovato una squadra a Perugia, se non lo sbattono via prima. Gli altri sono salvadoregni, argentini, Sonia (qui le squadre possono essere miste) è dell'Ecuador. Ed è straniero il polacco Bogdan Kwappik, il ragazzone sognatore che organizza la squadra con l'associazione Nuova Multietnica di Milano e si cruccia di non avere un posto dove allenarsi. Ha preparato il Mondiale in cinque giorni, aiutato dai Rom di un campo nomadi che gli hanno ceduto un spiazzo per giocare e dalla Lega dilettanti di Milano che ha pagato i biglietti aerei per la Danimarca. «Si capisce che dopo le prime quattro partite vinte, i ragazzi si sono infortunati», si lamenta, consolato dalla figlioletta bionda che è la mascotte della Nazionale. Adesso Bogdan spera che Milano organizzi la Coppa tra due anni, all’Arena, «così ci faranno un campo fisso», e si consola pensando che questa volta non perderà il posto di lavoro. «Nel 2004 e nel 2005 - racconta -, quando vincemmo il titolo, qualche giornalista si occupò di me e ai miei datori di lavoro non piacque: mi licenziarono». Questa volta non succederà. L’Italia è finita indietro e Bogdan tornerà ogni notte a sollevare i 15 quintali di carne da confezionare per i supermercati. Pensando a come si può vincere il prossimo Mondiale dei diseredati.

venerdì 9 maggio 2008

giovedì 8 maggio 2008

Barboni di L.Somma


Te li ritrovi all’angolo
laceri e macilenti
ombre negli occhi stanchi
su facce senza età,
le mani tremolanti
tese verso i passanti
cercano carità,
fermati se lo vuoi
forse così potresti
leggere nel passato
vite vissute ai margini
di questa società.
Ancora li ritrovi alla stazione
tra i binari dei treni
o nelle sale d’attesa
seduti sotto la biglietteria
ad aspettar probabili monete
date da viaggiatori frettolosi
che osservano nervosi e preoccupati
tutti gli orari della ferrovia…
Loro non hanno fretta
e li ritrovi
a scartocciare pasti sempre più asciutti
tra una bottiglia e l’altra
la cicca tra le labbra screpolate
nell’incomunicabile silenzio…
se resti indifferente,
fingendo d’ignorarli,
guardati per un attimo allo specchio
e ti ritrovi.

sabato 3 maggio 2008

Viva gli Zero!!!!

Zero niente novità e di lavoro faccio l'angolo del bar, con un cappotto pesantee leggero, con un futuro da cani.
Zero donne, Zero soldi, Zero amici, Zero sguardi, Zero palle, Zero pugni, Zero stelle, Zero sogni...........
Ero prima di essere me il novemiladuecentotrentatre, avevo casa, bollette e patente, avevo un corpo ma dentro non c'ero......e ora sono trasparente non più bianco non più nero, sconosciuto al mittente finalmente......
Zero Zero Zero e chi si muove più, se anche l'amore è un noioso su e giù e tu ragazza col sole fra i denti e un assorbente al posto del cuore.
Tu che a letto davi i punti e mi tenevi prigioniero fra le gambe e i sentimenti ma per te contevo Zero.
" Non mi piacciono i perdenti , voglio un uomo più sicuro che è nel giro dei potenti quelli che contano!!!"
Sì tutti i numeri uno, va bene così, tutti in centro di Milano e nessuno che aiuta nessuno, ma io........
Sono amico di un treno che passa di qui e mi porta ogni giorno il profumo del mare e un vestito da Zero....
Zero è una malattia che non si viene più neanche in fotografia in questo mondo di ricchi panini, come granelli di umana polenta.
Forse siamo dei bambini in piscine di placenta, siamo gli ultimi dei primi perchè il mondo non rallenta.
Si tutti i numeri uno.
Ma senza di me, come fate a far dieci? a far cento? a far mille? miliardi di Zero??????........Senza gli Zero???
Chi se ne frega dell'acqua e sapone voglio una vita di barba e pensiero......Voglio un grande scatolone che si vede solo il cielo e una doccia d'acquazzone tanto il sole asciuga e costa Zero......

giovedì 1 maggio 2008

Barboni invisibili troppo spesso ignorati

Barboni, gli invisibili troppo spesso ignorati.

Parlare di clochard non è folklore ma è un modo per interrogarsi sui casi della vita, su un’esclusione imposta o cercata.

Sono una ragazza di 18 anni che frequenta il liceo classico Tito Livio. Solitamente la mattina arrivo alla stazione di Cadorna; una mattina sono stata colpita profondamente dallo sguardo triste di un barbone, seduto in un angolo della stazione ferroviaria. Mi sono sentita davvero una persona senza un po' di cuore, e così mi sono fermata a parlare un po' con lui. Ho deciso di scrivere qualcosa per rendere coscienti le persone di tutti questi barboni, di questi uomini invisibili che ci circondano. Con il termine «barbone» indichiamo persone che, ai margini della vita cittadina, vivono d'elemosina o di altri espedienti; per lo più sono vecchi senza dimora e abbandonati a se stessi, ma anche giovani senza occupazione, incolti nell'aspetto e sudici, laceri nel vestire. Ecco, sono loro, questa classe invisibile, che si affiancano al nostro mondo degli sprechi e del consumismo. Ma domandiamoci cosa o come queste persone sono arrivate ad uno stato di abbandono simile? Le ragioni sono numerose: sono persone che hanno perso casa, famiglia, lavoro, gli affetti dei loro cari; vivono sui marciapiedi, ai margini della società, cercando di chiedere l'elemosina ai passanti frettolosi, che si accorgono a malapena della loro esistenza, che ormai li considerano quanto un cestino dell'immondizia. Ma dov'è finita la nostra umanità, la nostra etica, il nostro senso morale? Ma ci siamo mai domandati cosa provano queste persone, questi emarginati? Ogni volta che vedete un barbone, soffermatevi sul suo sguardo: è pieno di angoscia, di tristezza, è uno sguardo che porta con sé tutto lo sdegno e l'indifferenza che ha assorbito dal mondo esterno. Uno sguardo che chiede aiuto. Alessia Perna

Cara Alessia, sono dolci e tenere le tue parole sul popolo invisibile che vive ai margini di una città. Nell’aridità generale si scoprono sentimenti che aiutano a sperare. Perché parlare di barboni, come scrivi tu, o di clochard, o vagabondi, non è folklore ma è un modo per interrogarsi sui casi della vita, su un’esclusione imposta o cercata, su drammi che restano segreti e non finiscono in tv. È anche un modo per chiedersi se certe persone che vediamo lì, appoggiate a un muro ai lati della strada, si sono meritate il loro destino oppure no. Che sia una ragazza a parlarne allarga il cuore, quel cuore che quando era grande ingigantiva anche Milano. Perché c’è stato un tempo in cui i barboni non erano esclusi in città, basta sentire i racconti di Piero Mazzarella su Porta Romana, sulla vita di ringhiera, sulla gente che un tempo apriva la casa ai senzatetto. Io credo che si debba riscoprire quell’umanità senza porte sbattute in faccia a chi spesso non è responsabile della sua triste sorte, ma si è trovato in balìa di avvenimenti che non è riuscito a controllare. Questo ed altro dovremmo riuscire a vedere, come hai fatto tu, e forse non sei l’unica tra i tuoi coetanei. Anche se a volte ci sembra più cinica e spietata che mai, Milano, dietro certe giustificate paure dovute ad una immigrazione senza controllo, non si è dimenticata del popolo invisibile che aumenta di giorno in giorno. C’è chi pensa ad una banca, per finanziare aiuti ad hoc. C’è una rete di assistenza che ruota attorno al volontariato. Ma non basta. Dovremmo far crescere la cultura dello stare insieme, della comunità. Bisognerebbe far leggere proprio a Mazzarella la tua lettera, e poi dargli un grande teatro, e chiedergli di recitare uno di quei suoi personaggi sintonici con una certa Milano, fargli tirar fuori con il suo vocione che gratta il sentimento degli ultimi, dei disperati, e invitare i milanesi allo spettacolo. Gratis per tutti, così magari ci potrebbe venire anche il barbone di Cadorna, quello che hai incontrato nell’angolo e ti ha fatto commuovere.
gschiavi@rcs.it