venerdì 25 febbraio 2011

La leggenda del barbone in fiamme!

tratto da: La Vera Storia del Fegato di C.Bukowski di Emanuele Podestà.



Come un ceppo d’Epifania ardea di luce propria, prima ancora che il bavaglio e zuppo e madido prese così ben fuoco che quasi non gli stettero accanto in bruciore piedi e gambe e pelli spesse, consunte.
Ancor prima, una volta legate braccia ed arti ad una grata, rovesciata il propellente, super, quando non era chiaro di che cosa si parlasse.
E quando, prima di tutto ciò, il più lucente, solitario e dignitoso dei vagabondi della storia fu scelto, ancora non si poteva sapere che di un disperato ardente e futurista gioco di devastazione, le carni a cruce salus, si trattasse, giustappunto.
Questa è, avrete ben capito, la leggenda del Barbone in Fiamme.

Ok. Mi ripropongo uno stile più semplice. Non esageriamo!

Come si sceglie un barbone a cui dar fuoco?
Un momento: perché dare fuoco ad un barbone? Per gioco? Noia? Avrebbero, poi, incolpato società, famiglie e Gulliver, avrebbero chiesto scusa, sempre che qualcuno gliele avesse chiesto: il pentimento messo al mondo [Perché s’interessano così tanto che si faccia la raccolta differenziata e poi ci incoraggiano a figliare spermatozoi con gambe e braccia?]. Sempre che qualcuno s’accorgesse della mancanza di un barbone. In fondo il gioco è a basso rischio per questo: avrebbero provato volentieri a gettare sassi da un cavalcavia, ma se poi ci scappava il morto, e se poi il morto guidava un’auto di lusso e quindi era una persona a cui tanta gente voleva bene? Beh, incendiare un barbone era sicuramente molto più facile. Più democratico. I ragazzi lo scelsero, semplicemente. E quello fu mero esercizio di cernita, uno tra decine. In fondo sono tanti, in una città come questa. Un paio lì, sui marciapiedi, qualcuno in stazione o davanti ad un duomo. Ma quello, quello che scelsero, era sicuramente il più adatto: così scuro da sembrare carbonella. Così solo da dar fastidio. I ragazzi non erano mai soli [Perché si fanno figli? È contro natura, semplicemente].
Ok, vada per quello. Una volta prescelto bisogna allora capire quale modo sarà più divertente. Lo leghiamo ad una panchina? Lo lasciamo libero così, e questo è pregio non indifferente, potremo assistere l’uomo rovente mentre prova la fuga come se fosse possibile lasciarsi dietro lingue di fuoco ed ustione; magari contorcendosi e dando testate ad un muro per il dolore – immaginate che bello? -, sperando di andare così più velocemente verso morte sicura? I ragazzi proposero una grata ed un fazzoletto imbevuto, giusto per non fare troppo rumore. Quanto grida un uomo che sta bruciando vivo? Credo molto, non so [Voglio un figlio]. Credo, sottolineo che non sono sicuro, che se proprio le urla non riusciranno a farsi sentire, una volta acceso, queste si libreranno all’interno della scatola cranica, incrinandola. Forse nessuno lo sa se sul serio un uomo che brucia perisce per bruciatura - causa prima. Ma allora potrebbe morire per altre cose, in fondo. Paura: un motivo, sicuramente: io sarei terrorizzato se nel pieno della notte mi svegliassi infervorato come una torcia. Forse qualche reazione chimica particolare, forse. Magari disidratato, velocissimamente risucchiato d’ogni linfa, ogni succo. E se fosse solo un’abitudine? Ma anche le grida, torniamo a considerare le grida: devono essere insopportabili quelle di un essere umano fra poco sostituito da un cumulo di ceneri.
Alcuni le considerano divertenti, comunque.

Si prepararono nel modo migliore e dopo la scelta, i lacci legati alle mani ed intrecciati sull’inferriata, dopo la benzina più odorosa, fragrante, cosparsa come … su una torta (dava buono al barbone la benzina aromatica?), restava solo da dettargli la procedura, al fra poco barbone bruciante. Non restava altro che gettargli addosso quel fiammifero. Così si fece e così i ragazzi scoprirono un’incredibile verità.

Le fiamme bruciarono gli spaghi, qualche secondo dopo la prima vampa. Il Barbone in Fiamme correva e lo faceva dannatamente veloce. Bastardo pagliaccio! Schizzava da una parte all’altra del tunnel nel quale i ragazzi lo avevano adescato, rimbalzava su stesso e sui mattoni, sui tubi d’acqua che, gioco del destino, gli era privata. Il Barbone in Fiamme non aveva altro nome e da quel giorno la cosa si rese definitiva. E mentre si dimenava, mentre i ragazzi ridevano, il tempo che passava li cominciò a inquietare: era possibile bruciare per così tanto tempo? Un secondo: se ne accorse anche il clochard. Se ne accorse e si fermò. Inceneriva, ardeva, si stava abbrustolendo, ma non stava soffrendo, non sentiva dolore e tanto più non ascoltava la morte incedere. Avvampava, ma stava bene. Avvampava, ma s’era dimenticato qualcosa? I ragazzi e l’uomo si guardarono negli occhi: possibile? Sembravano chiedersi, l’uno nelle palle degli occhi degli altri. Uno strano fenomeno, fisica o chimica, non so. Uno strano fenomeno per il quale il Barbone in Fiamme sarebbe diventato leggenda, l’indigente torcia umana. I ragazzi videro così, per quella sera, i propri piani rovinati.

Una manata volò quanto più forte sul viso del primo ragazzo. Attenzione: i ragazzi erano tre. Volò con forza, quella della riscossa, ed al primo contatto con il quale il palmo si portò alla guancia questa fu interamente carbonizzata. Il ragazzo, uno dei tre, se ne rimase a terra inerme con metà viso incenerito, gran parte del viso rovinato per sempre. Peggio che un sasso dal cavalcavia, per l’appunto. Lo colpì e lo uccise. Lo colpì e le fiamme fecero quello che dovevano, fino al cervello arrivarono, bruciarono la pelle prima, si ficcarono nel cranio e lo uccisero. Il Barbone in Fiamme e la sua vittima a terra. Aveva fatto bene? Non sapeva se la definizione vittima fosse giusta. Ignorava la bontà del gesto. I suoi amici, i quasi-fratelli, quelli che non l’avevano mai lasciato solo, lo lasciarono solo. Cominciarono loro a sbalzare, catapultandosi e sobbalzando da una parte all’altra. Sembrava un ritrovo di idioti in preda ad una crisi. Distanti, se ne andarono così lontani da essere impossibile il loro tallonamento. Ed allora all’uomo incenerito non restò che dare un calcio nel costato del ragazzo a terra. Forse era già morto, ma non vi saprei dire esattamente per quale motivo.

Col tempo si seppe che forse il Barbone in Fiamme non moriva ed intanto non smetteva di bruciare per il troppo lerciume della sua pelle, per lo spessore del laidume, della marcescenza di tanta sporcizia che da sotto le unghie e poi dappertutto s’era a lui radicata addosso.
L’importante, per il clochard, era che non fosse ancora morto.

Qui scriverò, poi, qualcosa sulla lotta per la sopravvivenza. Di sicuro la più grande idiozia, il più dannoso cancro dell’uomo moderno. Ora non so cosa dirvi a riguardo, al di fuori del mio disprezzo.

Alla fermata dell’autobus nessuno gli disse niente.
Vedevano un uomo bruciare, se ne stavano il più distante possibile dalla fiaccola antropica, ma poi non troppo diversamente da quanto facessero solitamente da quei vecchi che a tutti i costi vogliono parlare di qualcosa: tempo meteorologico o tempo perso, soprattutto.

Altri commenti sulla vita di un Barbone in Fiamme, senza dimenticarsi di esagerare. Esempi di vita pratica: quando il Barbone si siede e liquefa il seggiolino sotto il suo potente sedere bollente, oppure quando beve qualcosa che ancora non gli è evaporato in mano e questo s’infiamma appena è lui stesso a gettarselo in volto. E poi cose di questo genere, tanto per rendere la storia un po’ più lunga.
Poi arrivo al finale. E parlo di Evita.

C’era tutto nel suo nome. Tutto ciò di cui un uomo avrebbe avuto bisogno.
C’era la vita, il principio. C’era una congiunzione. Perché è questo “essere” e questo fece per vivere prima di fare il barbone: scegliere dove mettere le congiunzioni. Dove a queste sostituirò una virgola, dove cancellerò tutto e ricomincerò da capo. La libertà è il metodo. Voi, chi s’adopera in questo mestiere, lo chiamate scrittore.
Evita, si chiama. Evita, la donna per la quale smise di scrivere, di parlare di congiunzioni e fare distinzione tra verbi transitivi ed intransitivi, per la quale divenne quello che era, un clochard come tanti. Perché la lotta per la sopravvivenza non ha senso, perché non ha senso dirsi felici e fingersi tali e se anche quel bel pezzo di fica di Evita decide di non sentirti più, di non darti una seconda possibilità, allora tanto vale morire. No, meglio, diventare un Senzatetto. Non credo esista una categoria umana più coerente dei barboni: amare così tanto da incorrere nell’irrimediabile.
La fissava, la porta di Evita. La fissava dal giardino accanto, spargendo distruzione nelle corolle e fili della vicina di sua maestà Evita. Aspettava che questa uscisse. Quando questo successe, estratto dal suo cantuccio tra aiuole e mattoni, il Barbone in Fiamme si parò davanti ad Evita; lei non capì chi fosse, mugghiando. “Ti amo” disse lui. Ed abbracciandola, gonfio e sicuro, si spensero entrambi. Lì, tra l’indifferenza.

Emanuele Podestà (Genova, 11 maggio 1987) La Leggenda del Barbone in Fiamme da "La Vera Storia del Fegato di C. Bukowski", 2009, HabanerO

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