giovedì 1 maggio 2008

Barboni invisibili troppo spesso ignorati

Barboni, gli invisibili troppo spesso ignorati.

Parlare di clochard non è folklore ma è un modo per interrogarsi sui casi della vita, su un’esclusione imposta o cercata.

Sono una ragazza di 18 anni che frequenta il liceo classico Tito Livio. Solitamente la mattina arrivo alla stazione di Cadorna; una mattina sono stata colpita profondamente dallo sguardo triste di un barbone, seduto in un angolo della stazione ferroviaria. Mi sono sentita davvero una persona senza un po' di cuore, e così mi sono fermata a parlare un po' con lui. Ho deciso di scrivere qualcosa per rendere coscienti le persone di tutti questi barboni, di questi uomini invisibili che ci circondano. Con il termine «barbone» indichiamo persone che, ai margini della vita cittadina, vivono d'elemosina o di altri espedienti; per lo più sono vecchi senza dimora e abbandonati a se stessi, ma anche giovani senza occupazione, incolti nell'aspetto e sudici, laceri nel vestire. Ecco, sono loro, questa classe invisibile, che si affiancano al nostro mondo degli sprechi e del consumismo. Ma domandiamoci cosa o come queste persone sono arrivate ad uno stato di abbandono simile? Le ragioni sono numerose: sono persone che hanno perso casa, famiglia, lavoro, gli affetti dei loro cari; vivono sui marciapiedi, ai margini della società, cercando di chiedere l'elemosina ai passanti frettolosi, che si accorgono a malapena della loro esistenza, che ormai li considerano quanto un cestino dell'immondizia. Ma dov'è finita la nostra umanità, la nostra etica, il nostro senso morale? Ma ci siamo mai domandati cosa provano queste persone, questi emarginati? Ogni volta che vedete un barbone, soffermatevi sul suo sguardo: è pieno di angoscia, di tristezza, è uno sguardo che porta con sé tutto lo sdegno e l'indifferenza che ha assorbito dal mondo esterno. Uno sguardo che chiede aiuto. Alessia Perna

Cara Alessia, sono dolci e tenere le tue parole sul popolo invisibile che vive ai margini di una città. Nell’aridità generale si scoprono sentimenti che aiutano a sperare. Perché parlare di barboni, come scrivi tu, o di clochard, o vagabondi, non è folklore ma è un modo per interrogarsi sui casi della vita, su un’esclusione imposta o cercata, su drammi che restano segreti e non finiscono in tv. È anche un modo per chiedersi se certe persone che vediamo lì, appoggiate a un muro ai lati della strada, si sono meritate il loro destino oppure no. Che sia una ragazza a parlarne allarga il cuore, quel cuore che quando era grande ingigantiva anche Milano. Perché c’è stato un tempo in cui i barboni non erano esclusi in città, basta sentire i racconti di Piero Mazzarella su Porta Romana, sulla vita di ringhiera, sulla gente che un tempo apriva la casa ai senzatetto. Io credo che si debba riscoprire quell’umanità senza porte sbattute in faccia a chi spesso non è responsabile della sua triste sorte, ma si è trovato in balìa di avvenimenti che non è riuscito a controllare. Questo ed altro dovremmo riuscire a vedere, come hai fatto tu, e forse non sei l’unica tra i tuoi coetanei. Anche se a volte ci sembra più cinica e spietata che mai, Milano, dietro certe giustificate paure dovute ad una immigrazione senza controllo, non si è dimenticata del popolo invisibile che aumenta di giorno in giorno. C’è chi pensa ad una banca, per finanziare aiuti ad hoc. C’è una rete di assistenza che ruota attorno al volontariato. Ma non basta. Dovremmo far crescere la cultura dello stare insieme, della comunità. Bisognerebbe far leggere proprio a Mazzarella la tua lettera, e poi dargli un grande teatro, e chiedergli di recitare uno di quei suoi personaggi sintonici con una certa Milano, fargli tirar fuori con il suo vocione che gratta il sentimento degli ultimi, dei disperati, e invitare i milanesi allo spettacolo. Gratis per tutti, così magari ci potrebbe venire anche il barbone di Cadorna, quello che hai incontrato nell’angolo e ti ha fatto commuovere.
gschiavi@rcs.it

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