lunedì 12 maggio 2008

Un Mondiale da veri "barboni"

Tra le nazionali del campionato per homeless

MARCO ANSALDO
INVIATO A COPENAGHEN della Stampa


Saul Ernesto Vazquez, piccolino e con la fisionomia india di chi è nato nel Salvador, sta seduto sulla precaria gradinata davanti al municipio di Copenhagen. Appena dietro l’angolo c’è la statua di Hans Christian Andersen, raffigurato con la tuba e il bastone, ma Saul quando gli è passato davanti non si è preoccupato di sapere chi fosse: nella sua vita non c’è posto per le favole e neppure questa lo è stata. L’Italia di cui è il capitano non ha ottenuto quanto si aspettava finendo lontana dai primi posti nella Coppa del Mondo di questo strano sport che è il calcio di strada e domani si torna alla vita di tutti i giorni, in lotta con lo stipendio che arriva quando te lo possono pagare e il permesso di soggiorno che da vent’anni c’è a singhiozzo e l’ultimo è scaduto prima di partire per la Danimarca e quando è andato a rinnovarlo gli hanno detto che mancava un documento. «Ogni quattro anni è la stessa storia - racconta -, manca sempre qualcosa. Come se aver costruito una famiglia in Italia, comportandosi onestamente e accettando i lavori che altri non fanno non bastasse per darmi fiducia. In un certo periodo ero custode in un cantiere.
Dormivo nel container ma un container per loro non è un domicilio e dicevano che non avevo fissa dimora. Niente permesso».
Gliene hanno rilasciato uno provvisorio per venire qui proprio perché è un nazionale italiano seppure della Nazionale più diseredata del Paese, quella dei senzatetto: Saul indossa la maglia azzurra con la fascia al braccio come Cannavaro, e probabilmente canterebbe l’inno di Mameli se fosse previsto dal cerimoniale, che lo evita perché il mondo degli homeless non ha confini e poi sarebbe scomodo con 48 squadre che si incontrano un’infinità di volte nella giornata, ogni venti minuti c’è una partita nuova. «Rientro a Milano e vediamo che succede», dice Saul, con un languore nello stomaco che non è solo delusione, è fame vera perché gli organizzatori hanno trovato a tutti un buon ostello dove dormire, ma il vitto è scarso e tre partite al giorno prosciugano. I pochi soldi finiscono al McDonald’s sulla piazza, sempre sotto lo sguardo immobile del signor Andersen.
La Coppa del mondo per i senza tetto è un’invenzione di pochi anni fa. Idea di Mel Young e Harald Schmied, uno scozzese e un austriaco, editori di riviste che i «barboni», come si diceva in tempi politicamente scorretti, vendono per le strade ricavando di che vivere: quella di Mel tira 40 mila copie in Scozia e lui è il presidente onorario del network internazionale che raggruppa 60 di queste pubblicazioni in tutto il mondo, 30 milioni di copie all'anno, cento mila persone che ci campano almeno un po’. Nei loro giornali già esisteva una squadra di «street soccer» che non è il calcio vero e neppure il calcetto. Si gioca tre contro tre più i portieri, in un campetto con le sponde alte come nell’hockey su ghiaccio e con le porte piccole, il terreno è un assemblaggio di quadrati di gomma dura, il pallone è di plastica, ha traiettorie difficili da addomesticare e non ci si ferma mai: anche per questo, 14 minuti di gioco divisi in due tempi sono abbastanza per marcare la differenza. I due inventarono un Mondiale che si gioca dal 2003 e oggi coinvolge 48 Paesi: per parteciparci bisogna aver avuto nell’ultimo anno problemi con la droga, l’alcool o la casa, essere finiti in qualche ricovero per mendicanti o vendere giornali per strada, come fanno i giocatori dell’Argentina, ex disperati di Buenos Aires «dove - dice Sergio, che li guida - le crisi del ’90 e del 2001 hanno tolto la casa a molta gente e la sicurezza di campare». Qualche sponsor li ha aiutati a pagare il viaggio, il Governo danese e la municipalità di Copenhagen offrono il soggiorno, per le piccole spese rastrellano la sera bottiglie e lattine vuote che rivendono a un supermercato sulla via. Li abbiamo visti prendere 8 gol dall’Uganda («manca un Maradona - sorride Sergio - come vede non c’è il numero 10»). Qui le gerarchie del calcio mondiale non contano, perciò succede che l’India stravinca sulla Svizzera e i finlandesi strapazzino la tenera Spagna di Isabel e di Paco, un tipetto con il codino e l’aria di chi ne ha viste più di Keith Richards, di cui è quasi coetaneo. La Spagna è già ad occhio una squadra «barbona», altre insospettiscono. Pur di vincere c’è chi ha portato gente rimasta senza tetto solo quando ha fatto le vacanze in tenda. «Abbiamo cercato invano una definizione mondiale di homeless - spiega Mel Young - perciò ci affidiamo alle regole di ciascun Paese: in Inghilterra ad esempio è senzatetto anche chi sta in un ricovero, in Africa lo è soltanto chi dorme all’aperto. In genere cerchiamo di essere elastici, siamo qui per coinvolgere più gente possibile, non per accantonarla ancora, e per dare una speranza a chi ha poco.
Quasi l’80 per cento di chi ha giocato il Mondiale ha potuto cambiare vita e finalmente abbiamo convinto molti governi a introdurre lo sport come una delle priorità nelle politiche di recupero dall’emarginazione». Gli africani sono quelli che ci credono di più. In Burundi erano in 5 mila a vedere la partita di selezione, la Nigeria aveva fissato un premio in caso di vittoria, il Sudafrica ha in squadra gli ex-capi di cinque gang che spacciavano droga a Città del Capo: dicono che il commercio ha frenato un po’. In compenso tanti non torneranno a casa. Mezza squadra della Liberia, appena messo piede a Copenhagen, è scomparsa, meglio diventare clandestini arrivando in Europa con l’aereo che sui barconi a Pantelleria. Invece gli italiani, tutti extracomunitari tranne un milanese, Mauro, più che homeless sono «sans papier». Chi ha il permesso, come Sergio Basile, l’oriundo capocannoniere argentino, manca peraltro di lavoro e vive in una casa della Caritas, da dividere con tre rumeni e un africano. Wilson e Anderson vengono dal Brasile e intendono fare davvero i calciatori tanto che, per cominciare bene, in attesa di una Velina si sono trovati un procuratore: Anderson dice che forse gli hanno trovato una squadra a Perugia, se non lo sbattono via prima. Gli altri sono salvadoregni, argentini, Sonia (qui le squadre possono essere miste) è dell'Ecuador. Ed è straniero il polacco Bogdan Kwappik, il ragazzone sognatore che organizza la squadra con l'associazione Nuova Multietnica di Milano e si cruccia di non avere un posto dove allenarsi. Ha preparato il Mondiale in cinque giorni, aiutato dai Rom di un campo nomadi che gli hanno ceduto un spiazzo per giocare e dalla Lega dilettanti di Milano che ha pagato i biglietti aerei per la Danimarca. «Si capisce che dopo le prime quattro partite vinte, i ragazzi si sono infortunati», si lamenta, consolato dalla figlioletta bionda che è la mascotte della Nazionale. Adesso Bogdan spera che Milano organizzi la Coppa tra due anni, all’Arena, «così ci faranno un campo fisso», e si consola pensando che questa volta non perderà il posto di lavoro. «Nel 2004 e nel 2005 - racconta -, quando vincemmo il titolo, qualche giornalista si occupò di me e ai miei datori di lavoro non piacque: mi licenziarono». Questa volta non succederà. L’Italia è finita indietro e Bogdan tornerà ogni notte a sollevare i 15 quintali di carne da confezionare per i supermercati. Pensando a come si può vincere il prossimo Mondiale dei diseredati.

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