Beggar’s Food Barboni gourmet a Milano
      Barboni. Di solito chiedono,  implorano, mendicano, ma cosa succede quando la situazione si capovolge,  quando a offrire buoni piatti caldi agli infreddoliti passanti milanesi  sono proprio loro. Scopritelo guardando il video di Franca Formenti,  l’artista che ha coinvolto Dissapore in questo insolito esperimento.
  
 Fin dai tempi del ready made  il senso  del fare artistico si è costruito sostanzialmente su due  coordinate:  l’intenzione dell’artista, che riconosce come “arte” il suo   operare, e uno spazio espositivo riconosciuto come attinente al  “sistema   dell’arte”, una galleria, uno spazio pubblico o altro,  comunque   in qualche modo legati a un promotore, un curatore, uno  sponsor di  mostre.  Un atto soggettivo e uno spazio “di garanzia”.
 Quando Christine Hill,  approdata in  Germania agli inizi degli anni ‘90, si mise a pulire la  strada dove  abitava ad ore fisse della giornata, simili e diverse da  quelle abituali   degli operatori ecologici comunali, operò una torsione  forte di quelle  coordinate. Arte di strada si era sempre fatta, non  c’è bisogno di  richiamare Bansky o Keith Haring; ma il gesto compiuto,  in genere, era  un gesto “istituzionalmente” riconoscibile come gesto  “artistico”,  pittura spray o disegno, e i conti alla fine tornavano.  Tanto è vero  che quei graffiti metropolitani sono alla grande nel  mercato dell’arte,  una volta acquisito il nome di genere: “Street art”.
 La Hill invece inglobava nel lavoro  dell’artista attività altre che,  nell’essere assunte come artistiche,  ne erano potenziate in  visibilità. Gli abiti di seconda mano che si  mise a vendere nelle sue Volksboutiques  dichiaravano esplicitamente lo statuto di merce interna all’opera   d’arte, e contemporaneamente esaltavano l’usato come merce dialogica,   pluridentitaria, discorsiva, parlavano ecologicamente di riciclaggio  e  circuiti alternativi. La ricchezza della cultura veniva assimilata  per  immersione, utilizzata con le pratiche “astute” (smart)  teorizzate da de Certeau,  metaforizzata per mutare registro rispetto  all’ordine dominante, usata  tatticamente da bricoleuse. Il fare  artistico era tutt’uno con le  modalità del relazionarsi. Un’arte  intrinsecamente performativa.
 Più che dare forma a realtà  immaginarie, tale arte relazionale vuole  porsi come modo di vita e  modello  di azione all’interno della realtà   esistente. Si tratta di pratiche  spesso correlate alla compressione  spazio-temporale della  globalizzazione,  e perciò segnate da istanze  intersoggettive e conflitti identitari,  anche se l’esigenza preminente  resta una elaborazione comune del  significato,  tra artista e suoi  pubblici: e dunque pratiche “artistiche” a tutti  gli effetti.
 Rirkrit Tiravanija,  un artista di  origine  thailandese ormai molto affermato, incarna bene  questa ambiguità  generosa,  tra l’accettare di consumarsi come dono  effimero e completo di sé,  e l’ambizione di proporsi come modello  etico. Tiravanija lavora sul  cibo e le sue opere sono, per scelta  estetica precisa, performance;   dunque processi “liminoidi”, come  direbbe Victor Turner, azioni  in  progress che modificano se stessi e la realtà esterna per il solo fatto  di prodursi.
 Perciò ogni sua esposizione si esaurisce spesso  nella serata  inaugurale, in cui l’artista prepara squisite polpette  thai, ibridate  con le contingenze locali, che arricchiscono il piatto  degli umori e  dei colori della cultura ospitante: un condimento, un  ingrediente  tipico, come attenzione al gusto dei presenti e come dono   necessariamente glocal.  Ma, attenzione, anche questo donarsi è in  realtà dentro un circuito commerciale protetto: sia che avvenga  in una  galleria privata, sia in uno spazio pubblico, la sua connotazione    “artistica” è garantita da curatori, esperti, galleristi, collezionisti,    promotori e pubblico del vernissage.
 Franca Formenti lavora anche lei col  cibo, ma in un’ottica di deriva post-situazionista. I pubblici a cui  indirizza le sue performance  non sono quelli selezionati dell’arte,  come quelli di  Tiravanija. E  d’altra parte le azioni di strada  non lasciano tracce permanenti né  possono essere ricondotte all’ordine  economico-simbolico  della  merce-opera d’arte come è capitato  per la Street Art.
 Un’arte senza luoghi deputati, senza segni  perenni; un’arte che  abolisce ogni spazio “di garanzia” e si espone  come puro rischio  performativo, perché adotta la logica sconfinata  della rete: il brainframe  della rete. Vive il flusso e resta nel flusso.   Agisce sui desideri e  sulle pratiche di consumo con occhio smart,  critica  il modello  commerciale ma non per contrapporgli quello del dono, bensì  per  smascherarne la pervasività.
 Per insinuare come non ci sia  possibilità  di uscire dalla logica  dello sfruttamento e del profitto, anche quando  essa assume la  seduttività del dono, e del dono di cibo: vitalità  del negativo, almeno  concettualmente, 50 anni dopo. E con  l’aggiunta,  rispetto ad allora,  della consapevolezza che il medium è il messaggio:  il che, nel  linguaggio della critica contemporanea, si chiama “critica   istituzionale”.
 Dietro le proposte di Franca Formenti  riassumibili nel Food Power, come la Street Food Escort  o in questo caso, il Beggar’s Food, non c’è alcuna istituzione  dell’arte,  alcun committente né curatore-mediatore-sacerdote. Come ogni  networking  open source istituisce invece un nuovo spazio pubblico,  dove il sapere  si elabora e si condivide orizzontalmente sulla base di  appartenenze  macroconflittuali. Fuori dalle gallerie, la promozione e  la diffusione   avvengono col passaparola, per contiguità, senza  costrizioni  sintattiche.
 Anche il committente può colorarsi del gusto fake dell’etica  hacker,  istituendo ulteriori livelli di narrazione, ulteriori link di   conflittualità. Quel fake che solo la rete rende possibile, in una   invenzione del quotidiano che mescola esperienze di blog, competenze   tecniche e luoghi della qualità per attraversamenti da bracconiere:  poachers, direbbe Mark Jenkins.
 Per Beggar’s  Food Formenti si è rivolta a Dissapore, uno dei network  più autorevoli dedicati al cibo. Con la loro complicità ha ideato  un progetto in cui il sito Dissapore si fingeva imprenditore, tanto  da fornire il logo all’iniziativa dell’artista, per avallarne la  credibilità in pubblico.
 Secondo il progetto un certo numero  di barboni sarebbe stato  addestrato a creare squisiti piatti caldi da  offrire per strada ai  passanti nelle fredde sere invernali. Un dono,  in apparenza. Un dono  che già in sé capovolge il senso comune e l’ordine   sociale, in cui è  il barbone a dover chiedere cibo. Tuttavia un tale  capovolgimento, così  vistoso da apparire rivoluzionario, non sradica  la legge del profitto.
 Gli ultimi continuano comunque ad essere  sfruttati,  ci insegna il  progetto Formenti, dal momento che la scommessa  imprenditoriale  si  fonda sul giusto calcolo che l’elemosina, la mancia per la gradita   squisita minestra calda, sarebbe sicuramente molto più ricca di quanto   non fosse stata se lasciata al solo buon cuore dell’eventuale   samaritano.  Più ricca di una semplice elemosina a senso unico, in pura  perdita,  fatta da chi è abituato a comprare, a scambiare beni con  denaro. Lo  scambio di cibo con denaro è meno osceno del ricevere cibo  da chi non  ne ha.
 Meno perturbante. Meglio abbondare nell’elemosina di ritorno,  se in  tal modo si può sconfiggere l’imbarazzo di un ordine sociale  sconvolto.  Meglio “pagare” il mendicante per il suo servizio che  riconoscerne la  sovranità legata ad un gesto di puro dispendio. Meglio  evitare di  ragionare sul dispendio: troppo disordinante. Su queste  leve di  psicologia sociale il progetto Formenti agisce come un  grimaldello. Il  profitto di chi si fa suo imprenditore è garantito: l’organizzazione   della fame e i criteri della distribuzione di cibo sono un business  nel  mondo spietato delle leggi di mercato. E i senza cibo resteranno  tali  anche quando lo produrranno per la comunità.
 Una metafora, una  splendida metafora di quanto accade in questa globalizzazione.   Una pratica smart da bricoleuse  e un’azione etico-politica di grande  impatto e portata conflittuale  poiché equipara, nell’evidenza delle  azioni e dei meccanismi di  reciprocità, la quotidianità dello spazio  pubblico con il territorio  del conflitto.
 Luisa Valeriani insegna Sociologia delle Arti e della Moda alla  Sapienza di Roma, e dal  2009 anche Creatività e circuiti dell’Arte  all’Università iulm di  Milano. Si è occupata di avanguardie, di cinema,  di mode, di consumi  culturali in genere.