giovedì 11 settembre 2008

il barbone di Platì

Si chiamava Michele, ma per tutti era Michele u Giamba.
Lo vedevo ogni giorno e a tutte le ore vagabondare per le vie del paese. Sempre per strada, sempre in cammino. Alla ricerca di un barattolo, di un pezzo di legno, di una pietra o di un qualsiasi oggetto abbandonato o buttato nella spazzatura. Altre volte lo vedevo seduto per terra a raccogliere avanzi di sabbia. La raccolta non avveniva se non prima si fosse ben assicurato che quel materiale era stato abbandonato, un rifiuto.
Michele conduceva una vita poverissima ma molto tranquilla, dignitosa e rilassata, non riusciva ad appropriarsi indebitamente neanche di una briciola di pane. Per lui tutto era utile. Un barattolino vuoto poteva servire a dar da bere ad un uccellino. Questa era stata la risposta e la spiegazione alla mia domanda, nel vederlo raccogliere una vuota scatoletta di tonno.
Michele era un uomo minuto, asciutto, capelli ricci brizzolati e scapigliati, spesso portava una barba bianca lunga ed incolta, Michele era nato a Platì l’8.10.1923 e nel suo paese natale in data 20.02.2006, aveva finito il cammino terreno, lo stesso giorno in cui 7 anni prima lo aveva lasciato Rachele.
Nel cimitero di Platì, a soli pochi metri dalla lapide di mio padre, lo rincontro, lo saluto e gli porto una rosa del mio giardino, ogni volta che passo da quelle parti. Sulla sua lapide trovo sempre un cero che arde e un fiore che sembra non voglia mai appassire. Nei giorni di festa o di lutto, quell’uomo ritorna nella memoria di tutta la comunità platiese, di grandi e piccini. Michele manca a tutti pur essendo stato l’ultimo…. l’ultimo o il primo “barbone” di Platì.
E’ difficile scrivere una biografia su questo uomo, tanti sarebbero i tasselli che andrebbero a comporre il suo mosaico. E’ importante ricordarlo, avvicinarlo ora che non sentiamo più l’odore sporco dei suoi vestiti.
E’ importante ricordare un uomo che ha vissuto accanto a ciascuno di noi e di cui spesso ci siamo beffati, è importante incontrare il Cristo anche attraverso il suo ricordo, ritrovare quel Cristo scomodo di cui quasi sempre ci vergogniamo e che ogni giorno allontaniamo dalla nostra vicinanza.
E’ importante ricordare un barbone platiese più volte aggredito a calci e pugni o a sassate - come in altri tempi lo è stato per “massaru Bruno di cagnola” (il signor Bruno dei cagnolini) - molto probabilmente da ragazzi scapestrati che non avevano trovato di meglio nella loro bravata, che una forma di gioco e di divertimento.
Michele era gioioso per tutte le filastrocche, canti natalizi e pasquali che conosceva.
Aveva l’umiltà di un asinello, quasi mai si adirava, neanche quando era stuzzicato in maniera pesante o addirittura con violenza fisica. Ricordo la cantilena pasquale: “Sono stati i miei peccati, Gesù mio, perdon e pietà” ….. e nel modo in cui la canticchiava, sembrava che lui fosse l’unico o il solo peccatore dell’umanità. E poi, il “Tu scendi dalle Stelle” con gli occhi puntati al cielo, quasi implorasse la caduta della neve.
Michele conosceva a memoria alcuni canti della Divina Commedia ed era uno spettacolo sentirli recitare da lui (aveva anticipato, d’una cinquantina d’anni, Roberto Benigni nella recita-spettacolo dell’opera dantesca)….. sapeva molte cose, era un uomo colto, ma amava fingersi stupido, e in quel suo atteggiamento nascondeva, velava una sana e dolce furbizia.
Spesso per ottenere qualcosa, si rendeva seccante, perché ripeteva la stessa richiesta infinite volte. Fingeva di non capire e poi ritornava sullo stesso argomento. Quante volte mi ha fatto innervosire perché mi chiedeva una “riabilitazione” per una “interdizione” inesistente?
Egli era stato per un breve periodo in manicomio e pensava, anzi era convinto, “fissato”, che fosse stato dichiarato interdetto e che altri, a sua insaputa e per conto suo, riscuotessero una sua pensione. Non vi era modo di convincerlo che a suo carico non vi era alcun provvedimento di interdizione e che nessuno per suo conto e in suo nome riscuotesse alcuna pensione. Non disdegnava il lavoro anche se non lo se faceva appesantire. Lo ricordo, negli anni 50 e 60 come imbianchino.
Aveva uno strumento che portava dietro la schiena e legato sulle spalle e quando spruzzava la pittura, sulle pareti venivano raffigurati degli uccellini, per questo io chiedevo ai miei genitori che chiamassero Michele ad imbiancare le parete di alcune stanze.
Lo ricordo ancora come operaio al tempo in cui è stata ristrutturata la mia casa. In quegli anni, lui abitava insieme alla mamma, in una catapecchia a pian terreno e già sin da allora raccoglieva piccole cose che gli capitavano per strada. La madre, come ogni mamma, pensava alla sua sistemazione e cercava la ragazza che potesse andare per lui, ma faceva delle comparazioni un pò esagerate. Un giorno si recò da un signorotto del paese per chiedere la mano della figlia per Michele.
A sostegno di quella richiesta ed unico argomento di convincimento era che se Michele avesse sposato la figliuola, il signorotto si sarebbe risparmiato il salario di un garzone. Più tardi e dopo, molte delusioni d’amore, Michele sposò Rachele, una umile donna di par suo rango. Erano entrambi anzianotti e non ebbero figli. Michele e Rachele vivevano tranquilli, sazi di quel pò che la Divina Provvidenza disponeva per loro. Secondo tradizione e convinzione, la religione era al primo posto.
Michele e Rachele erano timorati da Dio e ad ogni occasione partecipavano, secondo i loro averi, alle necessità della Chiesa. Michele ben presto incominciò a mettere dei risparmi da parte per comprare fonduscoli di terreno, casette abbandonate per poi colmarli di ogni cosa che trovava per strada, Raccattava carta, cartoni, barattoli, pietre, resti di ogni cosa, persino due vecchie ruote di frantoio, una vasca da bagno arrugginita, la carcassa di un’ automobile, un vecchio televisore e via discorrendo.
Michele era presente ad ogni funerale, ad ogni lutto per la morte di qualche compaesano. Egli accettava con molta umiltà tutte le elemosine che gli venivano fatte. Diceva che la Divina Provvidenza non l’avrebbe mai abbandonato. Spesso lo si vedeva sulla SS 112 a raccogliere pochi chicchi di ulivi avanzati alla raccolta.
La morte di Rachele, dopo lunga malattia, lo destabilizzò completamente. Egli avrebbe voluto tenere quel freddo corpo in casa sua, a fargli compagnia. Nei giorni successivi alla morte egli è stato visto al cimitero con l’intento di trafugare la salma, per tenerla con sè, a casa sua, dove avevano passato tanti anni insieme e felici.
Michele, come abbiamo già scritto è stato per lungo tempo il suonatore di tamburo del paese, ma negli anni 50 e 60 fino alla morte di Gianni, maestro dei maestri di tamburo di ogni tempo, egli è stato, il tamburino “in seconda”. Poi passò titolare e suonò in coppia con il cognato Pasquale, con Cicciallotto e con altri valenti suonatori di grancassa ed è stato presente in moltissime novene, processioni, festività varie Michele, un uomo che aveva capito molto della vita e dei suoi indecifrabili misteri; non parlava molto, preferendo invece osservare con molta attenzione tutto ciò che gli capitava
Preferiva, quasi con ostinazione, il silenzio.
Non sono stato sempre tollerante con lui e rievocare la figura di Michele mi ferisce. L’educazione di ogni individuo passa anche attraverso l’ammonimento, attraverso l’esame di coscienza, attraverso il pentimento e solo in questa direzione trovo la forza di scrivere di lui.
Una società migliore nasce sulla consapevolezza e sul riconoscimento dei propri errori, e non ha paura di rimproverarsi. Qualcuno potrebbe obiettare che in altri posti vicini e lontani accadono cose molto più brutte. Si è vero, ma per andare avanti bisogna migliorarci, non confrontarci con chi si comporta peggio di noi.
Identificare un paese o una persona, per ergerla a protagonista è puro e semplice infantilismo.
Con stile e dolcezza deamicisiana, Michele, amava parlare dei barboni, come fossero soggetti molto lontani da lui. Sotto Natale o durante l’emergenza freddo, quando mi coglieva solo soletto, seduto sulla panchina fuori di casa mia, lui passava, mi salutava, poi tornava indietro pensieroso come se avesse dimenticato di chiedermi qualcosa per poi sortire: “Non vi faci friddu? Vostra mamma u feci u braseri? (Non vi fa freddo? Vostra mamma ha preparato il braciere?)
In molte case del mio natio borgo, ancora ci si riscalda intorno al braciere.
E dal freddo dell’inverno, Michele, passava rapidamente a delle considerazioni pietistiche, alla gente che dormiva per strada, che non possedeva nulla. Per fortuna, diceva, che c’erano i preti, “uomini di Dio”, che aiutavano gli “ultimi”.
Nel contempo si domandava e mi chiedeva perché lo Stato non desse loro una pensione. Ma prima che io potessi dare una mia risposta alla sua domanda, egli continuava: “perché sono cafoni e sono egoisti e non hanno Iddio nell’anima”. In tale direzione cercava la mia approvazione: “Chi diciti avvocato”? (Cosa ne pensate avvocato?)
Michele non sapeva, e mi riusciva difficile spiegarlo e farglielo capire, che il Barbone per lo Stato invece è un puro peso economico, che non rientra neanche nelle leggi finanziarie di fine anno! I barboni e gli emarginati non interessano ai politici e sono visti in negativo come “sporcizia” che va pulita e ripulita e poi “bonificata” con i soliti mezzi polizieschi. Bisogna far sgombrare un barbone dall’angolo della stazione, ma non ci si preoccupa poi quale spazio egli dovrà andare ad occupare.
Forse l’unica celata indignazione è che non si è ancora riusciti a “tassare” le loro elemosine! I barboni sono spazzatura, perché vivono, sporcano e poi muoiono per la strada e il tutto assume un costo per lo Stato. Per comprendere che cosa significa essere senza fissa dimora occorre un grande sforzo d’immaginazione.
Il barbone è il “parente povero” di Michele, è un uomo che vive nella strada, senza una casa, senza un amico, senza un parente, nulla. La strada, una condizione di non-ritorno. la strada, il massimo dello spazio libero.
La strada è un campo di concentramento senza reticolato, una prigione senza sbarre. La strada: miseria e solitudine. Il cosiddetto «barbone» non ha cittadinanza, non ha diritti ed è assimilato al cane o al gatto randagio.. Ogni barbone ha una storia di vita, di solitudine, di emarginazione, di sofferenza. I barboni, i senzatetto muoiono in silenzio, senza far rumore. I barboni hanno «luoghi di sonno»; hanno «luoghi di lavoro», angoli di strada dove chiedono l’elemosina. Molti muoiono per freddo, sotto gli sguardi indifferenti dei passanti o in anonimi ospedali cittadini.
Michele era una persona piena di dignità. Non chiedeva l’elemosina, ma accettava e ringraziava con infinita dolcezza per tutto quello che gli veniva dato: un piatto di minestra, un pezzo di pane, un paio di scarpe, un paio di pantaloni, una giacca e via discorrendo. “Doni di Dio” amava definire tutte le elemosine che gli venivano fatte.
Michele viveva di ricordi: la sua casetta; la sua mamma, le sue abitudini, la miseria del tempo passato, il pezzo di “pizzata” (pane di granturco). La gente lo scansava, ma allo stesso tempo, lo voleva bene. La sera, prima di addormentarsi, egli guardava le stelle in cielo, il suo lampadario, per il quale non arrivava mai la bolletta enel. Spesso aveva voglia di piangere, ma, al contrario, non aveva paura di morire.
Michele non aveva privacy. A chi gli rinfacciava benevolmente il suo stato d’abbandono, Michele rispondeva che anche uno scienziato (alludendo al matematico russo Grigori Perelman), e quelli della televisione (così egli chiamava gli artisti di strada) avevano scelto di vivere come lui.
- Pensate, riflettete - diceva Michele - c’è anche chi dorme in un cassonetto dell’ immondizia o in una automobile abbandonata; c’è chi suona uno strumento musicale per procurarsi un piatto di minestra; c’è chi commette una cattiva azione solo per andare in carcere o chi simula una malattia mentale o si procura un incidente per ricevere rifugio e cibo in un ospedale.
Ma il barbone in genere è gravato quasi da un "marchio d’infamia”, non ha voce e i suoi diritti sono terribilmente compromessi. I nostri occhi fotografano soltanto l’esterno, l’aspetto esterno e superficiale, ma non l’angoscia della sua disperazione, della sua solitudine, della sua impotenza. La barriera della società civile non gli consente di uscire dalla sua condizione.
La fredda materialità del mondo industriale moderno ha aggravato la situazione; gli uomini vedono sempre meno, hanno una miopia irreversibile, assomigliano sempre più ai prodotti e alle tecnologie che hanno inventato; gli uomini hanno barattato la conoscenza con il confort, acquisiscono sempre più ricchezza materiale smarrendosi nel cammino della vita.
Schiavi delle nuove comodità, gli uomini non si domandano più chi sono e dove stanno andando. Il computer, strumento di lavoro, si trasforma in una nuova divinità da venerare. Superficialità e maschere, falsi valori e false verità, ci allontanano dalla nostra dimensione umana. Il barbone ci guarda: egli è l’unico testimone scomodo che la nostra coscienza non può rimuovere.
Michele, è già Natale anche quest’anno e tu non aspetti più la Sua ascesa sulla terra, perché sei salito tu sulle stelle, dove non sentirai più freddo.

Ciao, il tuo amico avvocato. Mimmo Marando

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