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venerdì 31 luglio 2009

Roma, clochard si impicca a inferriata della chiesa


ROMA, CLOCHARD SI IMPICCA A INFERRIATA CHIESA

(AGI) - Roma, 30 luglio 2009

Un uomo impiccato all'inferriata esterna della finestra di una chiesa al centro di Roma. Parrebbe avere i contorni del "giallo" ma con ogni probabilita' e' solo una tragedia della solitudine la morte di Ruggero I., 45 anni, il "clochard" originario di Barletta trovato cadavere fuori San Rocco all'Augusteo, in uno dei "triangoli" piu' famosi e suggestivi della capitale, quello delimitato da via di Ripetta, piazza Augusto Imperatore e via Tomacelli, a poca distanza dall'Ara Pacis. Il macabro rinvenimento e' stato effettuato all'alba dell'altro ieri dai carabinieri che, avvertito il pm di turno ed eseguiti i rilievi del caso, hanno disposto la rimozione della salma. Al momento, tutto lascia propendere per l'ipotesi del suicidio, anche se le indagini potranno ritenersi chiuse solo quando saranno disponibili i risultati definitivi dell'esame autoptico. Ma la conferma che si e' trattato di un gesto di disperazione non bastera' a lenire, tutt'altro, il disappunto di quei residenti del quartiere che con il tempo avevano fatto l'abitudine a quel signore che - a dispetto dei suoi precedenti penali e della mancanza di una casa e di una vita regolare - viene descritto come sempre vestito "in modo dignitoso", "gentile" e, soprattutto, "mai aggressivo", che si accontentava di quel poco che gli allungava chi aveva bisogno di parcheggiare l'auto o la moto nelle vie di Campo Marzio. Ad alcuni di quei residenti Ruggero negli ultimi tempi avrebbe confidato di essere "preoccupato", soprattutto dopo che un gruppo di posteggiatori extracomunitari, abusivi come lui - in assenza di un altro "collega" - in qualche occasione lo avrebbero taglieggiato, minacciato, addirittura percosso. Un clima difficile, ostile, che in qualche misura potrebbe averne influenzato la scelta.

giovedì 30 luglio 2009

Due milioni vivono in povertà assoluta

Nel 2008 in Italia 1.126.000 famiglie è risultato in condizioni di povertà assoluta, per un totale di 2.893.000 persone, pari al 4,9 per cento dell’intera popolazione. È quanto emerge dal rapporto Istat sulla povertà. Quasi 5 italiani su 100 possono essere considerati «i poveri tra i poveri» dal momento che non possono conseguire uno standard di vita minimamente accettabile.Sono 8 milioni 78mila le persone povere in Italia, il 13,6% dell’intera popolazione. Il fenomeno è maggiormente diffuso al sud (23,8%), dove l’incidenza di povertà relativa è quasi cinque volte superiore a quella del resto del Paese. È quanto emerge dal rapporto Istat sulla povertà relativa nel 2008 presentato oggi a Roma. La percentuale di famiglie relativamente povere (la soglia di povertà per un nucleo di due componenti è rappresentata dalla spesa media mensile per persona e nel 2008 è risultata pari a 999,67 euro) , riferisce l’Istat, è comunque sostanzialmente stabile negli ultimi quattro anni e immutati sono i profili della famiglie povere. Il fenomeno è stabile rispetto al 2007 a causa del peggioramento osservato tra le tipologie familiari che tradizionalmente presentano un’elevata diffusione della povertà e del miglioramento della condizione delle famiglie di anziani. L’incidenza di povertà risulta però in crescita tra le famiglie più ampie (dal 14,2% al 16,7% tra quelle di quattro persone e dal 22,4% al 25,9% tra quelle di cinque o più) , soprattutto per le coppie con due figli (dal 14% al 16,2%) e ancor più tra quelle con minori (dal 15,5% al 17,8%). In aumento la povertà nelle famiglie di monogenitori (13,9%), nei nuclei con a capo una persona in cerca di occupazione (dal 27,5% al 33,9%), tra quelle che percepiscono esclusivamente redditi da lavoro, e cioè con componenti occupati, (dal 6,7% al 9,7%) e ancor più tra le famiglie con a capo un lavoratore in proprio (dal 7,9% all’11,2%). Soltanto le famiglie con almeno un componente anziano mostrano una diminuzione dell’incidenza di povertà (dal 13,5% al 12,5%) che è ancora più marcata in presenza di due anziani o più (dal 16,9% al 14, 7%).

La Stampa - 30/07/2009

giovedì 10 aprile 2008

Barboni : “I am the tramp”

Un “popolo” affacciato sul vuoto, a cavallo di un abisso segna­to da dolori ottusi e povertà tenaci: sono i senza dimora, ‘quelli che solitamente chiamiamo «barboni» o vagabondi. Sono tanti: secondo i rapporti e le stime più autorevoli, calcolando anche i nomadi, gli alloggi impropri, gli immigrati con sistemazioni di fortuna, si arriva a mezzo milione di persone che vivono un forte disagio abitativo. Quelli privi di casa a tutti gli effètti sono 60-90 mila, altri 40-60 mila sono alloggiati provvisoriamente in servizi pubblici o case di accoglienza del volontariato.Sono dunque molti gli uomini e le donne che vivono in strada, ma di giorno non si vedono quasi, non si sa dove stiano. Non amano la luce, forse perché i loro corpi non fanno ombra, come i fantasmi sono attraversati dagli sguardi senza essere visti. Forse perché hanno vergogna di trascinarsi in mezzo agli altri, pesanti e infagottati di stracci, carichi dei loro preziosi sacchetti con qualche torsolo di cibo e, più facilmente, un cartone di vi­no, buono a scaldare d’inverno e a intossicare sangue e memoria tutto l’anno.

Vite prive di oggetti, di cose, oltre che di case; non, hanno nulla che tenga fermi in un posto, che non sia una panchina più riparata o la parrocchia vicina col piatto di minestra e il pezzo di pane.
Vite di strada e di notte. Vite di uomini e, sempre di più, di donne; di anziani ma, sempre più spesso, anche di giovani.
Vite di persone che hanno scelto e pagato l’illusione di essere li­bere, ma, ormai soprattutto, di persone malate, scacciate e schiacciate: tossicodipendenti, malati di AIDS, usciti dal carcere e dimessi dai manicomi, immigrati, disoccupati, sfrattati, senza famiglia, emarginati per cause diverse. “Barboni” per forza, senza poesia e senza giustizia.
Vite da barboni, che fanno venire alla mente quella pubblicità-progresso contro l’abbandono dei cani che dice: «bastardo sarai tu». E «barboni”, in effetti, siamo noi, società civile, ordinata e produttiva, ma anche distratta e indifferente riguardo a chi non ce la fa, a chi s’è fermato, s’è perso o, meglio, è stato messo da parte perché non disturbi la vista e non turbi la coscienza.
Queste figure rannicchiate che vi propongo, questi abi­tanti della notte e della strada, questo popolo delle stazioni e delle panchine, non sono solo fotografie: sono uno scossone al nostro intorpidito senso di giustizia, un richiamo al diritto di cia­scuno di avere un posto, un nome, un’identità, una residenza; o, di più e meglio: una dignità, una speranza.
Uomini e donne, giovani e anziani, sani e malati: cittadini, come ogni altro di noi, costretti a chiedere una minestra o una moneta perché non hanno ricevuto attenzione e risposte quando hanno chiesto diritti e giustizia, quando hanno chiesto lavoro o assistenza, una casa o una cura, un asilo o un permesso di soggiorno. Quando hanno chiesto le parole per chiedere e non le hanno trovate, perché non hanno potuto impararle. Sottratte anch’esse, povertà aggiuntiva e ancor più forte di quella ma­teriale. Così che, questi poveri estremi, oltre che invisibili sono anche silenziosi, per incapacità o per rinunzia. Pensateci: è difficile che chiedano o che si arrabattino a vendere cianfrusaglie o a lavare i vetri. Non disturbano, stanno rattrappiti in un, angolo oppure camminano, sempre discreti e trasparenti, sulla strada; itineranti proprio come una mostra fotografica o un circo equestre.
Vengono questi ribelli, questi dimissionari della convivenza, questi emarginati dalla ipocrita decenza, questi esiliati dal pote­re mercantile — la banale civiltà, l’angustia sociale che nomina barboni o in altri modi uguali questi che hanno abbandonato il campo, violato la dura legge dell’avere — vengono da lontano nella storia, da oscuri medioevi di carestie e pesti, d’empietà e di violenza, vengono dalle piazze di Londra, Parigi o di Milano, da sotto arcate di ponti, da corti dei miracoli, bruegheliane quaresime, cortei di cenci, di cecità e di piaghe, da alberghi di carità, ghetti di decenza.
Sono i barboni, nella trionfante storia nostra d’oggi, incongrue presenze, segno dei nostri ritardi, dei nostri fallimenti. Sono simbolo, nelle interne fratture, della più vasta, crudele frattura nel mondo, profezia inquietante d’un medioevo incombenti.
I cambiamenti di questo mondo, la crescita dei “barboni per forza”, ci dicono però che spesso basterebbe poco a farli ritrarre dall’abisso e dal vuoto, dalla solitudine e dalla paura. Basterebbe la cura per chi è malato, l’accoglienza per chi è drogato, un’opportunità di lavoro per chi è disoccupato. Un sostegno vero, insomma, più che le buone parole o il rifugio nella scusa, statisticamente sempre meno vera, che sono loro, barboni per scelta, a non volere una casa e una vita normale. Perché se non sappiamo dare loro un po’ di giustizia, anziché una facile pietà, i veri barboni siamo noi.

http://www.virginiomessori.it/rifiuto_differenziato.htm